giovedì 29 ottobre 2009

Ancora fuori

Essere assolutamente liberi! Si è ben capaci, è ovvio, di esaurire queste passioni distruttrici in modi più volgari e meno efficaci. Ma quanto glorioso liberarle in un unico getto! Cantare, urlare, danzare a piedi nudi nel bosco nel cuore della notte, privi, come gli animali, della coscienza della morte! Sono potenti misteri. Mugghiare di tori. Miele zampillante dalla terra. Si siamo abbastanza forti di cuore, possiamo strappare il velo e fissare quella nuda, terribile bellezza dritto in volto; che il Dio ci consumi, ci divori, ci smembri. E poi ci sputi rinati.
-Donna Tartt, Dio di illusioni

Il Mondo Convesso è davanti a me. Lo guardo muoversi e pulsare, dilatarsi e ritirarsi, brulicante di forme di vita. E io ne sono al di fuori.
Ogni meraviglia che ne fa parte è ormai lontana da me, non mi riguarda più.
Esiste solo il tempo ora.
Il tempo. Cos'è il tempo?
No, non c'è solo il tempo. Ci sono anche io qui ora. Ho creato l'attesa al di fuori del Mondo Convesso. E piano piano anche questo luogo assumerà una sua forma, ma sarà quella che io stessa gli darò. Mi porrò dentro una nuova nicchia, e sarò il centro di un Nuovo Mondo Convesso. Piegherò il tempo, creerò lo spazio, la vita e la morte. Oppure resteremo soli, io e il Tempo. Tutto il Tempo.
Il Mondo Convesso mi richiama a sé. Si apre a me, vuole mostrarmi la sua meraviglia, la Vita, il Piacere... Ma per me non è il momento di tornare.
Sono caduta dal ciglio del Mondo Convesso, la mia maschera si è dissolta e posso vedere quello che c'è dietro.
Una matassa di fili intrecciati, cavi elettrici, specchietti frantumati, vecchie foto, frammenti di carta, macchie di colore, e ricordi, soprattutto ricordi.
E' il momento di riorganizzare, ricollegare qualcosa in qua e in là, togliere le ragnatele, riporre tutto al posto giusto. E magari capirci qualcosa.
Non posso tornare adesso, è presto per me. Scorrerà il vostro e il mio tempo, forse nella stessa direzione, forse in direzioni diverse. Ma non è il momento perché si ricongiungano.
Non esiste nemmeno lo spazio qui. Se trovassi il modo mi muoverei attraverso il tempo, ci scivolerei dentro, scorrerei in avanti e indietro, rivivrei i momenti che desidero ancora e ancora... Qui è possibile, qui non ci sono le vostre regole, qui esiste una sola dimensione. Imparerò a viaggiare in questa luce bianco-neon, quando avrò trovato nella mia testa quello che cerco.

martedì 27 ottobre 2009

Ad memorandum 26/10/1998

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
-Eugenio Montale

Ieri sarebbe stato l'undicesimo compleanno di qualcuno a me caro come nessuno.
Ieri sarebbe stato l'undicesimo compleanno di una grande compagna, un'amica, una sorella.
Ieri sarebbe stato l'undicesimo compleanno di un grosso pezzo del mio cuore che non c'è più, ed è semplicemente insostituibile.
Un tumore ti ha strappata al nostro mondo, e non c'è bisogno di dire che della tua voce si sente la mancanza. Incapace di parlare come noi, eri quella che meglio di tutti sapeva farsi capire. Su ciò che volevi non potevano sorgere dubbi, i tuoi occhi dicevano più di quanto qualunque parola possa dire, anche quando sparivano sotto ciuffi arruffati di riccioli ribelli. Sapevi ciò che volevi-e come ottenerlo.
Ruffiana come pochi, abile imitatrice di Paolino Paperino, ci hai conquistati con la tua vitalità e la tua testardaggine. Volevi essere umana, e a volte lo eri più di tutti quanti noi. Rivendicavi il diritto a mangiare a tavola, a sedere sul divano e a dormire nel mio letto di tanto in tanto. E volevi tutto lo spazio per te, tra l'altro.
Non davi ascolto a nessuno se non a te stessa, e a volte facevi saltare i nervi. Riuscire a farti prendere una medicina era come cercare di guardare negli occhi un'anguilla. Eppure, a me prestavi sempre attenzione-quando volevi. E per me eri quanto di più speciale si potesse chiedere.
Avrei voluto darti di più, avrei voluto poterti salvare, avrei voluto avere più tempo. Avrei vuoluto almeno dirti addio.
Mia, veramente mia. E tuttavia di nessuno.
Sei stata te stessa fino alla fine.

sabato 24 ottobre 2009

C'è solo il Tempo fuori dal Mondo Convesso

Allungherò le dita dei piedi perché tocchino la spalliera del letto. Toccando la spalliera mi assicurerò che ci sia qualcosa di duro. Non sprofonderò; né scivolerò, dal lenzuolo leggero. Mi allungherò sul materasso sottile e resterò sospesa. [...] Potessi strapparmi da queste acque! Invece si accumulano, mi si rovesciano addosso, i sballottolano, io precipito, e i ritrovo distesa tra queste luci lunghe, queste onde lunghe, questi sentieri senza fine, tra gente che spinge, che spinge.
-Virginia Woolf, Le Onde

E' successo, alla fine. Sono caduta dal bordo del Mondo Convesso. Ero al limite dell'equilibrio già da un po', e ora sono caduta. E' successo, alla fine.
Ero sul bordo del Mondo Convesso, e stavo per cadere. Poi ti ho visto. Tu mi hai spinta giù, e sorridevi quando l'hai fatto.
Anche tu sei stato sul punto di cadere giù. Ma all'ultimo secondo l'hai vista e ti ci sei aggrappato. E ora ti fa da appiglio, ti tiene in equilibrio, ma non ti illudere: sei ancora sul bordo. Per questo mi hai spinta giù.
La caduta ha fatto paura. Come Alice precipitavo giù, sempre più giù, per chilomentri e chilometri, per un tempo che avrebbe potuto essere un'eternità o un istante. L'aria è stata risucchiata via dai miei polmoni, la vista si è annebbiata, i muscoli si sono contratti, i denti stretti in una morsa.
E poi l'atterraggio, forse ancora peggiore della caduta. L'urto ha schiacciato la mia gabbia toracica sui miei polmoni, mi ha spezzato il respiro e troncato le gambe.
E' curioso trovarsi, d'un tratto, morti, fuori dal mondo. Ma no, non sono morta. Sono fuori dal Mondo Convesso, e qui non è prevista la morte. La luce è bianca, come quella al neon, quella che odio. L'aria è tagliente come una lama di coltello sapientemente affilato, impossibile respirarla. Tutto sembra gelido e sdrucciolevole.
Rimango a terra, a contorcermi piangendo, cercando di prendere una boccata di quell'aria affilata come un rasoio, tremando, gemendo, sussultando. Gli occhi chiusi, le orecchie sentono solo i miei singhiozzi rimbombare, rimbombare, rimbombare nel vuoto.
Dovrò alzarmi, prima o poi. Ci provo, debolente, ma mi sembra di scivolare, le gambe non reggono.
Poi mi ricordo: sono fuori dal mondo. Qui le gambe rotte, i poloni schiacciati non sono niente. Qui non c'è niente: solo io, e il tempo.
Ora posso dirlo veramente: ho tutto il tempo, libera da qualunque cosa, qualunque ipegno, pensiero, libera perfino dalla morte. C'è solo il tempo, tutto il tempo del mondo.
Appoggio i piedi a terra, mi sollevo. La testa gira, gli occhi sono ancora pieni di lacrime, il naso è intasato e cola. Non riesco a respirare, vedo dei puntini che mi ballano davanti agli occhi. Ma sono in piedi.
Muovo qualche primo passo barcollante, con la sensazione di morire d'asfissia e di star per franare rovinosamente al suolo. Ma sono fuori dal mondo. Il Mondo Convesso non è più il mio mondo, ora sono alienata all'inverosimile da tutto e tutti.
Lo vedo, il vostro mondo, da qui. Vi vedo, tutti voi, che ci nuotate dentro come pesci in un acquario. Da qui non avete più segreti per me, vi leggo dentro come se foste tutti di vetro. Tutte le vostre maschere cadono di colpo, il gioco delle parti è finito. Non siete poi così diversi da me, né da nessun altro. Però sono io a vedervi l'anima adesso. Che spettacolo ridicolo, la vita. Tutto si riconduce agli stessi schemi, alla fine, eppure nessuno riesce a prevederli, tanto siamo incapaci di essere felici. Com'è comica l'infinita danza dell'umanità vista da qui!
E vedo anche te. Ti vedo bene, come non ti ho mai visto. Ora non ti puoi più nascondere dal mio sguardo, sei un pezzo di cristallo limpidissimo. La tua corazza si è infranta, la cortina di ferro si è sciolta, le tue parole non ti difendono più, ho solo i tuoi occhi con cui confrontarmi. E loro non mi mentono, mai. Non l'hanno mai fatto, e meno che mai possono farlo adesso.
Ti vedo, che barcolli sul bordo del mondo, come han fatto in molti e come ho fatto anch'io, prima che tu mi spingessi giù. Vedo lei, a cui tu sei aggrappato, e la maschera di felicità che ti sei fatto che si stacca da te e cade, cade, cade, anch'essa cade fuori dal mondo. Ma non tocca mai terra. Si dissolve, svanisce in fumo. E anche il fumo svanisce. No, non si dirada nell'aria. Svanisce.
Le maschere, le finzioni, i trucchi non ci sono qui. C'è solo il tempo. E il tempo accetta solo la verità. E lo sai, io sono una persona vera. La mia facciata è crollata, e ora sono qui, che ti guardo danzare barcollando ancora sul bordo del Mondo Convesso. Non cadrai per ora, e non rinuncerai al tuo appiglio, alla tua maschera. Ma da qui io vedo tutto, e soprattutto vedo te, e so. So quello che nemmeno tu ancora sai di sapere. Ma cadrai, prima o poi cadrai anche tu. Io aspetto. Io ti aspetto. Ho tempo, tutto il tempo.
C'è solo il tempo fuori dal Mondo Convesso.

giovedì 22 ottobre 2009

In sala d'attesa a tempo indeterminato

Aspettare: attendere che si verifichi un evento, una circostanza o che arrivi qualcosa o qualcuno.

Non sono una persona molto paziente. Anzi, direi proprio che non lo sono mai stata. Affatto.
Non sono sicura di aver mai veramente lottato per qualcosa in vita mia. Non ne ho mai avuto bisogno, o se non altro ho ritenuto che non ne valesse veramente la pena, e forse in molti casi è stato davvero così.
E quando non si è abituati a dover sudare e faticare per ottenere qualcosa, anche qualcosa di veramente importante, è difficile rendersi conto di alcune cose.
Ci viene da pensare che le cose belle, tutte le cose belle, cadano dal cielo, e che l'unica cosa da fare per poterne godere sia tirare fuori la lingua, come si fa per raccogliere i fiocchi di neve. E non ci sono mai due fiocchi uguali, non si troverebbero nemmeno cercandoli per tutta la vita. Eppure sembrano tutti così perfettamente identici a vederli cadere!
...e in un attimo, sulla lingua, si sciolgono.
No, non è così che funziona. Non si può pretendere che tutto ci precipiti direttamente sulla testa, che ogni nostro problema sia risolto solo grazie all'infinita benevolenza dell'Universo. Vuoi ottenere qualcosa? Allora tira fuori le unghie e combatti per averla.
Ho trovato qualcosa, anzi, qualcuno, per cui sono determinata a lottare, e sì, me ne sono resa conto troppo tardi. Lo so. Si può essere davvero ciechi alle volte.
Ma c'è una cosa che aiuta sempre a capire: il tempo. Se ne spreca sempre tanto, ed è un tipo piuttosto vendicativo, non c'è colpo che non renda.
Eppure adesso ne ho da vendere. Tempo per lottare e per aspettare.
Dovrò diventare di colpo una persona paziente, dovrò cercare di non fare più capricci, dovrò crescere di un bel pezzo tutto insieme. Posso farlo.
Posso farlo perché so (con una buona approssimazione) chi sono, e sono una persona vera. E le persone vere non hanno paura dei propri sentimenti, per quanto forti e devastanti essi possano essere.
Non ho più paura di dire che amo, che soffro, che piango, perché tante cose mi fanno piangere. E se mi conosci sai quanto mi pesasse darlo a vedere.
Se prima mi spezzavo pur di non piegarmi, ora sono flessibile, e ancora più determinata. Posso percorrere vie che prima non avrei nemmeno preso in considerazione in nome di uno stupido orgoglio che mi è costato tanto, posso dare il mio vero 100%, vivere a 360°. Devo essere paziente? Sarò paziente. Non ho più niente da perdere ormai.
Ma c'è da aspettare. E io ho tutto il tempo del mondo.

mercoledì 21 ottobre 2009

Martino

Martino è un pupazzetto di cane che viene da un Happy Meal (della Virgi, tra l'altro).
Martino ha un grosso naso e due languidi occhi marroni che sembrano voler scappare dalla sua testa. Come me. Per questo si chiama Martino.
Martino è uscito fuori dall'Happy Meal della Virgi, lei me l'ha dato e ora vive sul mio comodino.
Martino ha un musetto dolce, di quelli che ti fanno sentire in colpa qualunque cosa tu abbia fatto, anche se non hai fatto niente.
Martino vorrebbe stare tutto il giorno sul palmo della tua mano a guardarti negli occhi.
Martino non vuole essere lasciato solo, perché ha paura che gli altri pupazzi più grossi gli facciano i dispetti.
Martino ha un piccolo cuore da pupazzo, e con i suoi occhioni di plastica sembra poter vedere tutto.
Ieri sera l'ho preso e l'ho tenuto per un po' sul palmo della mia mano. Mi fissava dritta negli occhi. Non sono riuscita a metterlo giù per un po'. Sembrava che quel musino avesse un disperato bisogno di me. Bisogno di compagnia.
Un pupazzetto venuto dall'Happy Meal, identico a tanti altri, trovato per caso. E se qualcuno lo sostituisse con un altro uguale sarebbe praticamente impossibile accorgersene. Ma non sarebbe Martino.
Forse ci vorrebbero diversi giorni per notare la mancanza di un qualunque minuscolo dettaglio osservato in precedenza, attestato di unicità. Ma poi l'occhio finirebbe inevitabilmente per cadere dove ricordavamo una piccola irregolarità, un graffio, una scucitura e non la troverebbe più.
Rendersi conto improvvisamente che Martino non è Martino, che lo abbiamo perso, che quello che avevamo per le mani non era altro che un sostituto, un fantoccio. E non sapere più come ritrovare quel grosso naso e quegli occhioni languidi.
Certo, anche il sostituto ci piace, e ci dispiacerebbe separarcene. Eppure ci manca il musetto di pezza originale, Martino, quello che ci ha conquistati per primo.
Martino vive sul mio comodino, e da lì mi guarda con i suoi occhi che vogliono scappargli dalla testa, occhi dolci, spaventati e curiosi. E non vuole essere lasciato solo.

martedì 20 ottobre 2009

Guardami negli occhi quando mi abbandoni

Poche cose mi dànno un senso di consolante sicurezza come la fedeltà del mio cane
-Konrad Lorenz

Firenze. Luendì pomeriggio. Ieri pomeriggio, insomma.
Appuntamento col Polly alle 4 davanti al McDonald dentro la stazione. Mi deve dare il suo solito giacchetto di jeans, vuole, come da copione, che gli cucia delle nuove toppe di gruppi metal dai nomi truculenti, ovviamente gratis. Ma per il vecchio Polly questo e altro.
Le lezioni all'università sono finite all'una. Decido di fare una corsa al Miche, per vedere se riesco a beccare un paio di mie vecchie prof. Le lezioni lì finiscono all'una e un quarto. Devo arrivare prima che i ragazzi escano come un fiume in piena, o non riuscirò a combinare niente. Metto il turbo e vado. Ma trovo il deserto.
"C'è stata assemblea oggi, sono andati via tutti alle 11 e 30"-mi dice la bidella in portineria.
Ma che diamine! Una corsa fatta a vuoto. Ed è solo l'una e mezza.
Per riempire il tempo, mi metto a fare il giro delle librerie del centro. Magari trovo almeno uno dei libri che mi servono per l'università.
Prima tappa: Feltrinelli International.
Dopo aver buttato un occhio tra i libri di filosofia, di religione, di teatro (indugio qualche minuto sul nome Majakovskij), mi ritrovo ad osservare qualcosa di più curioso. Nella sezione "filosofie orientali" trovo il celebre Libro delle Risposte, con cui mi diletto per un po', proponendogli in pratica sempre la stessa domanda (l'unica che mi interessi davvero), ma posta con parole diverse. E le risposte tra di loro si equivalgono tutte. Caso. O magari no.
Infine mi decido a posarlo, e mi cade lo sguardo su un altro titolo interessante: "Più conosco gli uomini, più amo il mio cane", di Edward Olivia. Lo sfoglio per un po', divertita, fino a che qualcosa di ancora più magnetico non cattura la mia attenzione. Si tratta di un piccolo libro quadrato, piuttosto sottile, firmato Giorgio Panariello. Il titolo recita "Guardami negli occhi (quando mi abbandoni)", e dalla copertina un paio di grandi, meravigliosi, dolcissimi occhi di cane osservano con un'intensità tale da spezzare il cuore ad una pietra.
Immediatamente prendo il libro tra le mani, con i lucciconi agli occhi e una morsa che mi stritola lo stomaco. Una frase si ripete, si ripete, si ripete, si ripete, per più e più pagine, accompagnata da immagini che mi rimescolano qualcosa dentro: "Perché non mi guardi negli occhi?"
Perché non mi guardi negli occhi?
Lo sguardo rivela molto più di quanto le parole vogliano dire, molto di più di quello che siamo disposti ad ammettere. Le persone che evitano il nostro sguardo non ci ispirano fiducia, e un motivo c'è sempre.
E come possiamo quindi non accorgerci di quando una persona con cui abbiamo condiviso tanto, a cui siamo stati accanto per lungo tempo, che conosciamo come nessun'altro evita il nostro sguardo? Come possiamo non capire che c'è qualcosa che non è stato detto? Non mi guardi negli occhi perché c'è qualcosa nascosto dietro di essi.
Lo capiamo noi, e anche i cani lo capiscono. Qualcosa non va. A differenza nostra, però, loro ripongono nel proprio compagno infinita fiducia. Li molli in mezzo di strada e scappi via? Restano lì, ad aspettarti. Perché tanto torni, vero?
Vero?
Torni a prendermi, no?
Devo solo comportarmi bene, aspettare qui, e tu tornerai... Giusto?
E allora, perché non mi guardavi negli occhi?
Perché. Con che coraggio si può sostenere un simile sguardo? Non si può, nemmeno chi scarica un amico fedele in autostrada riesce a farlo. Forse perché sa perfettamente di essere quello che è: una merda. E a nessuno piacerebbe essere una merda. No, fino in fondo bisogna dirsi che non si sta facendo niente di male, non si riesce a prendersi la responsabilità di quell'azione, di aver mandato a morte un essere per cui rappresentiamo semplicemente TUTTO.
Prenditi la responsabilità delle tue azioni.
Guardami negli occhi quando mi abbandoni.

lunedì 19 ottobre 2009

Verranno a chiederti del nostro amore

Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a crederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo
tu non darglielo in fretta

non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore
dopo l'amore così sicure a rifugiarsi nei "sempre"
nell'ipocrisia dei "mai"

non sono riuscito a cambiarti
non mi hai cambiato lo sai.

E dietro ai microfoni porteranno uno specchio
per farti più bella e pesarmi già vecchio
tu regalagli un trucco che con me non portavi
e loro si stupiranno
che tu non mi bastavi,

digli pure che il potere io l'ho scagliato dalle mani
dove l'amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni
per ritornare dopo l'amore
alle carenze dell'amore
era facile ormai

non sei riuscita a cambiarmi
non ti ho cambiata lo sai.

Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre
come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre
i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro
i tuoi occhi assunti da tre anni
i tuoi occhi per loro,

ormai buoni per setacciare spiagge con la scusa del corallo
o per buttarsi in un cinema con una pietra al collo
e troppo stanchi per non vergognarsi
di confessarlo nei miei
proprio identici ai tuoi

sono riusciti a cambiarci
ci son riusciti lo sai.

Ma senza che gli altri non ne sappiano niente
dirmi senza un programma dimmi come ci si sente
continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito
farai l'amore per amore
o per avercelo garantito,

andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori
o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai,

continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai.
-Fabrizio De André

E adesso?
"Adesso pulire!" rispondevano una volta le formiche del mio diario Black Power.
Raccattare i cocci e andare avanti insomma.
Voltare pagina, cambiare aria, fare un altro giro di boa, fare la muta... Chiamatelo come vi pare, si parla sempre della stessa cosa.
Sì, è il momento della svolta. E io la mia svolta l'ho avuta. Anche se non è quella che mi avevano consigliato.
La svolta riguarda gli occhi con cui guardo le cose, il modo in cui vivo i miei sentimenti, in cui inseguo i miei sogni.
Già, si parla di nuovo di sogni. E di illusioni. Roba che fino a poco tempo fa avrei lasciato ai romantici. Non la ritenevo materia per me, mi ritenevo una donna di scienza, e lo sono ancora. Eppure non posso non rimproverarmi di aver voluto applicare per forza la ragione a cose che con la ragione hanno veramente poco a che fare, e mi ritenevo più intelligente degli altri per questo. E mi sbagliavo. Di grosso anche.
I sentimenti vanno vissuti, liberati, lasciati scorrere attraverso tutto il corpo, il cuore, gli occhi. Tentare di razionalizzarli li soffoca, li uccide, li fa accartocciare come le pagine dei libri bruciati.
Non si può ricondurre tutto alla stessa materia. Le cose sono sempre molto più complesse di quello che sembrano, e hanno sempre più di una faccia, e non una sola parola per definirle.
E quando "verranno a chiederti del nostro amore", sai bene che le parole non potranno mai bastare a descrivere qualcosa di così incredibilmente complicato.

domenica 18 ottobre 2009

Il viaggio nel tempo

Ieri notte ha cominciato a chiedermi se sia effettivamente possibile viaggiare nel tempo. Premere un tasto di "rewind" e riavvolgere il nastro fino al punto desiderato.
Mi sono raggomitolata sotto le coperte, ho abbracciato il mio asinello Telemaco stretto stretto, e ho cominciato a ripetermi: "Voglio svegliarmi e voglio che sia il 18 settembre 2009, voglio svegliarmi e voglio che sia il 18 settembre 2009...".
Ovviamente non ha funzionato.
Spontaneamente la mia mente non si è rivolta alle risposte che possono essere fornita dalla scienza (cosa di cui a posteriori mi sono stupita), ma ho cominciato a pensare che ci deve pur essere una qualche Forza Superiore in grado di realizzare qualcosa del genere.
Strano come a volte senza rendercene conto cerchiamo le soluzioni dei nostri problemi là dove è più difficile trovarle. Alla domanda "è possibile viaggiare nel tempo?" si può avere una vera risposta attraverso gli studi e il progresso scientifico, come si può notare anche solo dando un'occhiata alla lunga serie di pagine che propone google, ma quelle risposte non ci soddisfano. Perché? Eppure sono buone risposte, dimostrabili, non cadono in contraddizione, e forse un giorno diventeranno anche qualcosa di più di teorie. Ma non ci vanno bene. Se si vuole viaggiare effettivamente nel tempo, la scienza non può soddisfare le nostre richieste, non ancora almeno. E anche se un giorno fosse in grado di farlo sarebbe enormemente complicato: bisognerebbe in primo luogo essere pieni di soldi, trovare le giuste apparecchiature, sorbirsi un pippone su quanto sia sbagliato modificare il corso degli eventi (e che ci viaggio a fare nel tempo se non posso nemmeno intervenire qua e là come mi pare??), e inoltre come minimo ci si dovrebbe muovere sempre sotto sorveglianza di un qualche fisico panciuto che ci moralizzi e controlli che non venga schiacciata una sola mosca. Che fatica!
No, se si vuole viaggiare nel tempo la scienza non ci aiuta. E noi vogliamo soluzioni facili, molto facili, a portata di mano. Certo, magari bisognerà vendere l'anima a qualche genio maligno, sacrificare qualche povera creatura sventurata, bruciare incensi sospetti, dire qualche formula poco rassicurante, il tutto rigorosamente in una notte di luna piena sull'orlo di un lago maledetto in Finlandia, ma che cosa sarà mai!
E se dopo tutto questo trambusto nulla fosse cambiato? Se il rituale magico si fosse rivelato una colossale bufala? Forse è il caso di lasciar perdere.
Che fare a questo punto? Troppa la pigrizia per concentrarsi semplicemente su un futuro migliore.
Comunque sia, stanotte ci proverò di nuovo.

sabato 17 ottobre 2009

Il cambio degli armadi

Oggi è una giornata da mal di testa.
Le giornate da mal di testa si riconoscono subito, sono presagibili già la sera prima, quando si va a dormire, e confermano la loro presenza già subito la mattina, quando, ancora con la testa sotto le coperte, si fanno sentire tramite la luce che filtra da fuori la finestra, e ancora attraverso le lenzuola. La testa sembra piena di ovatta appena appena umida, i suoni arrivano distorti, rimbalzano sulle pareti, sulle porte, nelle orecchie e nella testa, e nella testa, e nella testa, e nella testa...
La domenica è una classica giornata da mal di testa. E oggi è sabato. Questo mi porta a pensare che ci saranno due giornate da mal di testa questa settimana. Chissà perché, ma l'idea non mi entusiasma.
Oggi è anche il giorno del cambio degli armadi, il che spiega anche il mal di testa. Mia madre si è alzata presto, ha iniziato già a tirare fuori vestiti da luoghi oscuri ed inesplorati, fare lavatrici, passare l'aspirapolevere in ogni angolo, persino in quelli di cui probabilmente lei stessa ignorava l'esistenza. Mi chiama, vuole che mi alzi e mi renda utile. Sto raggomitolata sotto le coperte e penso: se mi alzo, mi dovrò fare la doccia, e poi asciugarmi i capelli, e mi verranno i capelli a fungo, e sembrerò una pioniera anni '30, e dovrò girare tutto il giorno per casa fingendo di essere Merna Kennedy solo per non sentirmi del tutto idiota. A volte mi chiedo come faccio a pensare tante cretinate.
Alla fine mi alzo anch'io. Sono le 11 e mezzo.
Mi trascino in bagno, mi lavo i denti, mi infilo sotto la doccia.
Sento ancora la testa piena di ovatta, forse per l'overdose di Satyricon di ieri sera. E non ci ho capito niente, tra l'altro.
Oggi ho voglia di fare, a differenza di ieri. Ieri riuscivo solo ad aspettare altri "due minuti", ricordo di tanti altri "due minuti" del mio passato.
Oggi vorrei fare quello che devo fare pensando solo a quello che devo fare, e magari pensare ai prossimi due minuti, anziché a due minuti fa. Eppure non mi riesce molto bene, anzi. Se una buona percentuale del mio cervello vuole pensare a fare il cambio degli armadi, a un programma per stasera, la parte che rimane riesce a pensare solo che oggi è il 17 ottobre e a quello che è iniziato esattamente un anno e sei mesi fa. E da lì si origina il mal di testa. Ma almeno per oggi è meglio cercare di lavorare su altro.
C'è da fare il cambio degli armadi. Un lavoro noioso, di solito causa di una bella litigata con mia madre. Lei butterebbe tutto, io terrei tutto. Alla fine, di solito, nessuna delle due ha la meglio, e si rimanda il problema al cambio successivo.
Un giorno avrò un armadio enorme, in una stanza enorme, così ci sarà spazio per tutto, pure per quello che dovrei veramente buttare via. Ci sarà spazio pure per le farfalline, che inesorabilmente si mangeranno tutto. E allora a cosa sarà servito avere un armadio enorme?
Un enorme serbatoio per tutto, dove tutto resta fermo in eterno, dove non c'è mai ricambio tra stagione e stagione. E' rassicurante, ma quanto spazio lascia all'evoluzione? Là le cose non si perdono, non si abbandonano mai. Si deteriorano e basta. E quando non ne rimane più niente, siamo costretti a sostituirle con qualcosa di nuovo.
Qualcosa cambia comunque, per forza, che si faccia pulizia ad ogni cambio di stagione o che si lasci che sia il tempo a farla per noi.
Non mi piace fare il cambio degli armadi.
Voglio un armadio enorme.

venerdì 16 ottobre 2009

Due minuti

Sono le 8 e un quarto di mattina.
Suona la sveglia.
Premo il pulsante per la ripetizione dell'allarme ("è ancora presto...").
So già che è impostata per suonare ancora dopo due minuti. Ho una teoria a riguardo: in questo modo sono costretta a spegnerla di continuo, e quindi a svegliarmi, anche per sfinimento... quel "bip...bipbipbipbip.... bipbipbipbipbipbipbipbip..." è insopportabile, sentirlo di continuo dovrebbe convincermi ad alzarmi. Ebbene, il metodo sperimentale ha dimostrato che questo sistema non funziona. Eppure vale ancora la pena di tentare.
Le 8 e 17.
Suona la sveglia.
Premo ancora "ripeti".
Posso lasciarla suonare almeno fino alle 8 e mezzo. Non ho fretta.
Le 8 e 31.
Suona la sveglia.
"Altri due minuti..."-mi dico.
"Due minuti..."
Mi ricordo quando dormivo da Enrico il sabato sera. Lui la mattina si svegliava sempre presto, mi accarezzava, poi si alzava e mi copriva bene con le lenzuola azzurro-verdi di pile, si preparava il caffé e latte (soprattutto latte) nella tazza dei Beatles ("Abbey Road") che gli avevo comprato a Berlino, faceva colazione, guardava il telegiornale, armeggiava un po' con il computer. Ma la cosa che mi ricordo meglio di quelle mattine, passate pigramente in quel monolocale umido e senza riscaldamento, era quando usciva dalla doccia e mi veniva a svegliare. Era bellissimo: veniva fuori dalla porta del bagno in una nuvola di vapore, con addosso uno dei suoi accappatoi, bianco oppure azzurro, e con la cuffietta da doccia sulla testa, tutto gocciolante d'acqua calda, e profumato di bagnoschiuma al borotalco. Gli ho sempre detto che in quella mise era di un'omosessualità dirompente. Per questo mi faceva impazzire.
Si chinava su di me, ancora addormentata, e l'acqua gli sgocciolava dal naso. Sentivo l'odore della sua pelle pulita, dell'acqua calda, del borotalco, dei capelli bagnati oltre la cuffietta di plastica.
"Amore... amore amore... amore amore amore! Alzati!"-mi diceva.
"Mmmm... due minuti!". E lui rideva. Sempre.
Ha sempre amato il modo in cui lo dicevo.
"Due minuti..."
Ora di quelle mattine è rimasto solo l'intervallo tra le ripetizioni dell'allarme di sveglia nel mio cellulare. Strano come cambino le cose.
Le 8 e 49.
Suona la sveglia.
La spengo.
Mi dico di alzarmi. Ho un braccio informicolato. La lezione inizierà alle 9 e mezzo.
Mi dico che mi alzerò quando smetterà di formicolarmi il braccio. Ma prima ancora che abbia finito, mi sono già riaddormentata.
Le 9.
Apro gli occhi. Devo alzarmi. Ho mezz'ora per vestirmi, lavarmi ed arrivare all'università. Posso permettermi di arrivare un po' in ritardo, non è un problema.
Ma non è questo il punto. Non voglio alzarmi affatto, oggi.
Non voglio dover sgusciare fuori dal letto, dove c'è solo aria fredda, trascinarmi fino al bagno e vedere i miei occhi, ancora gonfi di sonno.
Non voglio andare fuori, vedere la luce bianca del freddo, quella luce che in alcuni giorni mi faceva sentire contenta, un anno fa, e pensare che è tutto cambiato.
Non voglio prendere l'autobus, sentirmi osservata dalle altre persone, camminare per strada.
Non voglio passare due ore seduta in università, lottando con il sonno, per poi uscire e sapere di non avere niente da fare per il resto della giornata.
Voglio che i miei "due minuti" durino tutto il giorno, oggi.
Non andrò all'università, dormirò finché avrò sonno, e dopo fingerò di dormire finché avrò voglia di farlo. Fingerò di non essere qui.
Fingerò di avere ancora qualcuno a cui chiedere di aspettarmi ancora due minuti.
Vorrei non averlo chiesto quella volta di troppo.