domenica 29 novembre 2009

La risposta "NO"

"Se te l'avessi chiesto, mi avresti risposto di no."

Cos'è una domanda?
Quella che ho appena fatto, per esempio.
Cos'è un permesso?
Una risposta ad una domanda.
Cos'è il rispetto?
Il fare la domanda.

Deve'essere così che funziona, almeno credo, o in un modo non molto dissimile da questo, non so, non sono sicura, non ricordo bene.
Non so con precisione cosa fare di me. Anzi, non so come comportarmi, ad esser onesti e precisi. E io sono onesta. E precisa. Pignola.
Mi ritrovo con un corpo, un ingombro di troppo, mentre navigo ancora, fuori dal Mondo Convesso, anche se la pazzia, o almeno la sua fase culminante, sembra finita.
E che me ne faccio?
Ha un suo peso, come l'aria, minimo, ma ce l'ha. Mi mantiene ancorata a terra-o forse sono gli anfibi?
Devo porlo nello spazio, devo farlo nel modo giusto. Ma qui c'è solo il Tempo, e il mio lavoro diviene più difficile.
C'è un Fuori, pieno di parole. Di bocche. Di corpi. Di mani.
C'è un Fuori, pieno di domande. Domande da fare, domande fatte, domande abortite.
E poi, ci sono le domande che non viene nemmeno in mente di fare.
Ci sono le azioni, senza parole, senza domande, a cui si risponde con un'altra azione.
Ad ogni azione corrisponde una reazione.
Un rapporto causa-effetto.
Eppure io vorrei dire qualcosa.
Sento questa parola che mi si forma spesso nella testa, rimbalza sulla superficie del mio cranio, e rimbomba dappertutto, cercando la via di fuga delle labbra: no.
No. NO.
Ma ancora più spesso è l'attesa. L'attesa che qualcosa passi, che il Tempo scorra, che questo momento finisca.
E non posso dire di no, non riesco a dire di no.
Perché la domanda non c'è. C'è l'azione, l'imposizione.
E quindi, non c'è il no. Ma non c'è neanche il sì.
I fatti vogliono parlare da soli.
Si perdono di vista molte cose in questo modo, eppure sono talmente ovvie che le parlore per descriverle dovremmo già saperle dall'inizio.
Ma, come sempre, ci vuole un atto scatenante per metterle in fila.
E l'atto scatenante è una nuova domanda, quando ormai stavo quasi cominciando a dimenticarne il significato.
Mi fa ridere, mi suona assurda, quasi ridicola forse. Eppure è così normale, ragionevole.
E allora dire di no è finalmente facile.

venerdì 27 novembre 2009

So Pink

Ho deciso di fare un esperimento scientifico.
Ho indossato una maglietta nera, con sopra un vestito nero, anfibi neri, cappotto nero, bombetta nera. Come al solito, insomma.
Ho deciso di aggiungere qualcosa però.
Ho messo un paio di leggins, sotto il vestito. Rosa shocking, fluorescenti, con i guantini a rete abbinati.
Un autentico pugno di colore nell'occhio.
Ho camminato per la strada, in città, così vestita.
Guardarsi di sfuggita nei rilfessi sulle macchine e nelle vetrine. Vedere una sottile sagoma nera come la pece, e sotto di lei due esili gambette di una sfumatura di rosa imbarazzante che si muovono.
Questo è il mio esperimento scientifico.
La gente qualche volta mi fissa per la strada, per via della bombetta. Mi fissano la testa.
Non voglio che mi fissino la testa, mi dà fastidio che mi fissino la testa, i miei peggiori difetti sono catalizzati là.
Così, mi sono detta: vediamo se riesco a spostare l'attenzione su qualche altra cosa.
Ecco il perché dei leggins imbarazzantemente rosa.
Ora vedo la gente che quando mi incrocia abbassa lo sguardo sulle mie gambe, non sulla mia testa. E' divertente vedere la reazione sulle loro facce.
Incrocio una signora sul marciapiede all'angolo tra Piazza San Marco e Via Cavour. Mi guarda con aria di disapprovazione. Mi fa quasi ridere.
E' una donna che sicuramente avrà più di cinquant'anni, e una donna può ancora essere molto bella a quell'età, forse anche lei potrebbe. Ma è più ridicola di me.
Ha i capelli ossigenati, di un colore finto, cotonati, non so quante bombolette di lacca le siano servite per tirarli su in quel modo, indossa un cappotto viola come il giglio della Fiorentina, coi risvolti lilla, e il suo viso è ricoperto da una maschera di fondotinta e chissà quali altre porcherie. Mi guarda. Storce il naso.
Dopo che mi ha superata non posso non ridere.
I miei leggins sono vistosi, di pessimo gusto. Gli occhi di quasi tutte le persone che incontro per la strada ci cadono sopra, e vedo alzarsi sopracciglia e storcersi bocche, e sento anche qualche parola sussurrata.
Pochissimi non ci fanno caso. Forse sono veramente sani, o veramente egocentrici, chissà. Comunque sia, lo apprezzo.
Ed è strano, strano avere indosso qualcosa fatto appositamente per richiamare l'attenzione e apprezzare proprio chi non se ne accorge.
E allora mi domando: voglio attirare l'attenzione o scomparire tra la folla?
Viene il buio, e il rosa si opacizza alla luce dei lampioni.

martedì 24 novembre 2009

La cosa di cui non si può parlare

Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

La cosa di cui non si può parlare è una cosa di cui non si può parlare.
E fin qui non ci piove.
Ricorda un po' la prima volta che a lezione di filosofia ti dicono che l'Essere è e non può non essere. Normalmente si reagisce con qualcosa che suona come: "Ma va'?"
Poi arriva Heidegger e se ne esce con l'Essere che non è. Ed ecco che secoli e secoli di metafisica vanno a farsi benedire.
Della cosa di cui non si può parlare non si può parlare.
E infatti, non ne parlerò.
La cosa di cui non si può parlare ha occupato ben undici pagine del mio quadernino rosso e altre quattro in un file criptato nel mio pc.
La cosa di cui non si può parlare è un pensiero assurdo, mosso da un sentimento irrazionale in maniera parassita.
E' la Fenice che si immola sulla sua pira, per rinascere, ancora.
La cosa di cui non si può parlare non può esistere in questo mondo. O meglio, non deve.
E' la sua assurdità a renderla impossibile, irrealizzabile. Eppure, basterebbe così poco, in effetti. Ridicolo. Irrazionale, totalmente irrazionale. Assurdo.
E' la cosa di cui non si può parlare, e non si può veramente, non dovrebbe esistere, ma ci sono pagine e pagine in cui se ne parla, pagine più nascoste di questa, di questo blog. Ma ci sono.
La cosa di cui non si può parlare è perfettamente delineata, in modo aggiacciante e freddo, senza parole che indichino un sentimento, una persona, la vita che c'è dietro.
Un lungo dolly, una carrellata in bianco e nero, o forse qualcosa di pulp, alla Tarantino, con un solo elemento di colore, rosso.
Questa è la cosa di cui non si può parlare, la cosa che non deve esistere, non deve accadere, nemmeno nella mia testa.
La cosa di cui non si può parlare è scritta in tratto per nero, per undici paginette numerate a mano, descritta in una parola: noir.

domenica 22 novembre 2009

Il bambino aspetta il treno

Sono alla stazione di Compiobbi.
Aspetto il treno.
Ho appuntamento con Jacopo per andare al cinema, già so che mi farà aspettare.
Infatti rimarrò dieci minuti da sola davanti alla farmacia in Santa Maria Novella. Come da copione.
Il binario è invaso dai boyscout, con la loro bandierina col ratto-no, non ho idea di quale animale dovrebbe rappresentare veramente, per me è e rimarrà un ratto.
C'è una ragazza con un bambino piccolo, un turacciolo di bottiglia in giacca a vento.
L'ha portato lì perché vuole vedere i treni.
Ne passa uno. Va ad Arezzo.
"Vuoi che aspettiamo anche quell'altro? E' fra dieci minuti".
Quando ero piccola e andavo a Pisa da mia nonna mi portavano a vedere le oche. E delle oche ho parlato anche nella mia tesina di maturità, tra le altre cose. Sarà che porto il nome di un'oca.
"Quanto manca?"
"Dieci minuti".
Mi ricorda Jacopo, che ha perso un anno di scuola per giocare a fare l'aviatore, giocando alle simulazioni di volo giorno e notte. Sarà qualcosa di tipicamente maschile-penso-quest'attrazione mistica per i grossi mezzi di trasporto.
Un giorno questo bambino farà un viaggio, e farà una testa come un pallone a una sua amica su come funzioni il motore di un treno. Già me lo immagino.
"Quanto manca?"
"Sei minuti".
"E adesso?"
"Ancora sei minuti".
L'impazienza. E' così evidente nei bambini, ci fa quasi sorridere a volte, e molto spesso fa snervare. Crescendo si dà per scontato di essercene liberati, in qualche modo, almeno di quella forma così insistente, pressante, petulante. Eppure è sempre lì, possiamo provare a nasconderla, ma c'è.
"Quanto manca?"
"Quattro minuti".
Sembrano un'eternità, vero? Mi sembra di dover aspettare una vita perché arrivi questo treno, qui, su questo maledetto binario pieno di boyscout con la bandierina con il ratto e gli zaini.
Che buffo. Possibile non riuscire ad aspettare quattro minuti per un treno, dopo aver aspettato ventiquattr'ore al giorno per giorni e giorni, tutti i giorni, sapendo che si tratta di un'attesa che tende all'infinito? Non è ironico?
"Quanto manca?"
"Tre minuti".
Come funziona il tempo? Come lo percepiamo?
Perché ci risulta così difficile aspettare per un tempo così breve a volte?
A volte si ha la sensazione che allo scadere dei tre minuti il cielo ci debba schiantare addosso. Il sangue che scorre nelle vene fa male, lo stomaco si contrae, le ginocchia si piegano. A volte succede così.
Aspetto.
Cosa?
Che il tempo passi.
Vorrei che scorresse il più velocemente possibile, eppure quando mi rendo conto che è proprio quello che fa vorrei afferrarlo con entrambe le mani, fermarlo, stringerlo, rigettarlo indietro, indietro, indietro.
Ma è come voler fermare l'acqua di un ruscello aggrappandocisi con le sole mani. Non ha senso.
Aspetto che il tempo passi.
Non è troppo tardi.
E' incredibilmente presto.
Il treno arriva al binario 2. Salgo.

venerdì 20 novembre 2009

Costipazione

Eccomi.
Eccomi ancora.
Il mio viaggio è terminato, e io sono di nuovo qua, davanti a questo computer, mentre con un occhio guardo la televisione, e la testa viaggia.
Ce ne sarebbero di cose che vorrei raccontare, adesso. Ci sono molti nuovi pensieri che mi ronzano per la testa. Ho pensato molte volte al modo giusto per metterli nero su bianco, ma ancora non ne ho trovato uno adatto.
Avrei tanto da dire, e non ho abbastanza tempo per dirlo.
Mi sento come costipata.
In questi giorni tutto si è accumulato nella mia testa, le parole si sono accavallate senza uscire, perché la valvola di sfogo era momentaneamente chiusa. Mi sembra di dover ricominciare tutto da capo. Insormontabile.
Cominciamo da qui, allora.
Cominciamo da oggi.
Un nuovo tentativo col teatro.
Le emozioni prendono il sopravvento, e vorrebbero sgorgare fuori tutte insieme, d'un colpo. Eppure qui, in piedi, davanti a queste persone, non ce la faccio. Mi blocco.
Però ci provo. Rabbia.
Rabbia, rabbia, rabbia...
Incredibile, non riesco a trovarne.
Trovo irritazione, ansia, paura, tristezza, nervosismo. Ma non rabbia.
Possibile che non sappia cosa sia?
No.
Forse che sono così arrabbiata da considerarla di casa, a tal punto da non saperla riconoscere?
Forse.
UNO! DUE! TRE! QUATTRO! CINQUE! SEI! SETTE! OTTO! NOVE! DIECI!
Torno al mio posto. Mi tremano le ginocchia. Che sensazione curiosa.
Il cuore mi batte forte, mi sento emozionata.
E poi tutte le emozioni premono contro i miei occhi, vogliono usarli come via di fuga, tutte quante contemporaneamente.
Sento le lacrime che si formano, e sorrido, ridacchio anzi. E' buffo.
Un fiume di parole si forma di botto nel mio petto, lo sento salire su per la mia gola, vuole scorrere fuori, in un unico potente getto. Ma ora non si può. Devo trattenerlo.
Nella mia testa le parole si intrecciano, le frasi si compongono, il suo nome, i ricordi di lui affiorano, le storie cominciano a distendersi, a srotolarsi, tutto diviene chiaro, liscio, scorrevole, come quando scrivo.
Il cuore batte. Gli occhi si bagnano. E non riesco a controllare quest'emozione, forte, potente, totale. Mi piace da impazzire.
Devo capire cos'è. Devo capire come controllarla, come incanalarla.
E saprò chi sono, una volta per tutte.
Il cuore batte forte nel petto. Le ginocchia tremano.

giovedì 12 novembre 2009

In morte del gordio Gianfilippo

Diario di Rorschach, 12 ottobre 1985.
Stanotte un Comico è morto a New York.

Firenze, La Specola.
Corso di laurea in Scienze Naturali.
Oggi hanno messo Gianfilippo sotto spirito.
Gianfilippo è un gordio che Antonio ha portato avanti e indietro in un barattolo nel suo zaino per qualche giorno. Per chi non sapesse che cos'è un gordio, basti che è una bestiolina, o meglio un nematomorfo, in tutto uguale ad un crine di cavallo, che se ne sta bellamente nell'acqua a divincolarsi. Siccome a quanto pare a La Specola non ne avevano da esporre, Gianfilippo è finito in una provetta sotto spirito.
Antonio mi chiede come possa dispiacermi per una creatura sprovvista di sistema nervoso. E perché non dovrei?
La vita è vita.

mercoledì 11 novembre 2009

Il chiodo in testa

Domani sera sarò su un treno alla volta di Pisa, con Jacopo.
Andiamo a Southempton, a far visita alla nostra ex-compagna di interrail, che ha ben pensato di piantare l'Italia per un posto migliore.
Mi dicono che mi farà bene starmene un po' là. In tutta franchezza, non lo so.
Non so fino a che punto ho voglia di spostarmi dalla mia piccola nicchia di calore in questo momento. Eppure non ho nemmeno voglia di restare qui ferma. Anzi, spesso vorrei essere il più lontano possibile. Ma ora come ora mi perderei.
Da lì i miei contatti con "il mondo" saranno interrotti. Niente msn, niente facebook, niente blog. Niente valovola di sfogo quindi. Per sei giorni. L'idea mi terrorizza.
Mi metto nei panni di Jacopo, che dovrà sopportare i miei sbalzi d'umore. Che santo. Ci vuole pazienza con me, lo capisco, specie in questi ultimi giorni.
Mi sto mangiando vive le persone. Sono nervosa, mi sento la testa pesante, ma non posso smettere di pensare.
No, smettere di pensare non è una soluzione possibile, e anche se lo fosse non la contemplerei. Quindi devo pensare. Ma a cosa?
Farebbe comodo un pulsane "off" dietro la testa, di tanto in tanto, ma non ne siamo provvisti. Milioni di anni di evoluzione, e non possiamo nemmeno distrarci da noi stessi per cinque minuti. A qualcosa dovrà pur servire allora questa scatola piena di cavi aggrovigliati.
Cercare di guidare il proprio pensiero è inutile, e lo porta sempre sulla strada sbagliata. Non si può evitare una cosa ficcata al centro del nostro cervello, tanto vale farsene una ragione. E in questo momento piantato nella mia fronte c'è qualcosa che somiglia molto ad uno dei chiodi che tenevano Cristo inchiodato sulla croce, con tutto il sangue e la ruggine.
La mia mente deve essere lasciata libera, e il chiodo non può essere evitato. E allora non lo eviterò. Se è là che il pensiero vuole andare, che vada.
E ci dovrà sbattere ancora molte, molte, molte, molte, molte, molte, molte, molte volte ancora. E probabilmente spesso farà male. Come ieri notte e oggi, ad esempio.
Ma ci sono dei giorni in cui non è così, in cui quel chiodo è un dono, per quanto sia conficcato in profondità e incrostato del mio stesso sangue. Ci sono momenti come l'altra notte. Illusioni? Forse, ma non saprei dire fino a che punto.
Per quanto io sia acciecata dalla forza dei miei sentimenti so che questa è la mia strada adesso. L'ho scelta, ed eccola. No, non ha proprio un bell'aspetto. Ma so perfettamente perché sono qui. E tu dovresti saperlo.
E' tutto scritto qui, la mia testa si è aperta e si è svuotata in queste pagine. E l'hai letto.
E' tutto scritto qui.

lunedì 9 novembre 2009

Lettera d'Amore

"Alla sua donna"
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

-Giacomo Leopardi, Canti

Oggi ripongo il mio ditino moralizzatore nella tasca, per una volta. Che non ci facciate l'abitudine, sia ben chiaro.
Ma oggi, che dire, mi sento così.
Oggi voglio scrivere una lettera d'amore. Così. E perché non dovrei, in fondo?
L'ho fatto molte volte, e oggi voglio farlo di nuovo.
Prima che venga il Natale, con tutti i giramenti di scatole che comporta, e i nervi a fior di pelle. Devo farlo adesso, prima che questa sensazione scappi via.
Oggi mi sento così.

Ieri notte mi sono affacciata alla finestra di camera mia.
Erano le due e mezzo, forse le tre di notte.
Dalla mia finestra non si vede granché, lo sai. Solo un pezzo di colle e un pino marittimo che copre tutto il resto, un po' come l'ermo colle e la siepe del Leopardi.
L'aria era gelida, penetrante, aria notturna, aria già quasi invernale.
Ho alzato lo sguardo. Il cielo era limpido, tranne che per qualche nuvoletta che pareva fatta di cotone. Un cielo così non lo vedevo non so da quanto.
Ho visto le stelle. Puntini bianco platino su uno sfondo nero, come piccole punte di ghiaccio immerse nell'aria gelata. Sono splendide, lo sapevi?
Faceva molto freddo, quel tipo di freddo che ti penetra sotto la pelle, strato dopo strato, e ti arriva alle ossa, le avvolge, le congela, le sgretola quasi. Ogni centimetro della mia pelle esposto a quell'aria era come trafitto da spilli sottilissimi, migliaia di spilli. Che bella sensazione.
Da dove viene tutto questo calore? E' un fuocherello scoppiettante, che viene da dentro il mio petto, sepolto in un cantuccio piccolo e sicuro.
Ho inspirato una boccata profonda di quell'aria tagliente, e poi un'altra, e un'altra, e un'altra ancora. Mi sento felice, stanotte. Sai cosa significa?
Voglio raccogliere un po' di gelo, di questo gelo magico, incantato, da fiaba quasi, così simile a quello che doveva esserci nel mondo della Fata di Zucchero, raccoglierlo dentro di me, congelare questa sensazione mistica, e portarla sempre con me, ovunque io vada. Congelare questo momento di vera felicità.
Sono mai stata felice? A guardare le cose da qui davvero non saprei dirlo.
Sì, so che devo essere stata felice in qualche momento, ma non credo di essermene mai veramente accorta. Nessuno se ne accorge mai.
Non credo di aver mai detto "sono felice" prima d'ora.
Non ti sembra strano che lo stia dicendo proprio adesso?
Tu sei a casa tua. Ti immagino nel tuo letto, mentre dormi, fragile, completamente esposto. Bello. Magari non sei da solo.
Magari adesso stai facendo l'amore con lei, proprio mentre scrivo queste parole.
Che strano. Strano come le cose cambino. E cambieranno di nuovo, sia per me che per te.
Tu mi dici di non essere speciale. Non capisco davvero come tu faccia a non accorgertene.
Guardami. Guarda quello che sto facendo.
Ti ricordi quella notte, qui, a casa mia, quando ho pianto, così tanto da non riuscire nemmeno più a parlare? Ti ricordi, non sono riuscita a dire una parola fino al giorno dopo. E anche allora i suoni che producevo erano borbottii sommessi, fiochi. Ci sono volute ore prima che riuscissi a dire vere parole.
E ti ricordi di come mi agitavo, come incespicavo, inciampavo nelle parole quando cercavo di dire qualcosa, qualcosa di importante, e mi arrabbiavo, come una bambina, perché non ci riuscivo. E tu mi dicevi "Dillo con parole tue".
Ora quelle parole le ho trovate. Mi ci è voluto molto, troppo tempo. Ma le ho trovate. I miei pensieri accartocciati si sono distesi, mi scorrono davanti agli occhi distintamente. E io li leggo. E poi li scrivo. E sei tu, soltanto tu, che emergi. Tu, che credi di non essere speciale.
Mi ci è voluto non solo sudore, non solo lacrime, ma anche sangue, il mio sangue, per riuscire a vedere chiaramente, per riuscire finalmente a comunicare, comunicare davvero. E sto ancora pagando questo sforzo.
Mi dici che ci ho impiegato troppo tempo, ed hai ragione. Ormai te ne sei andato.
Ma non mi puoi chiedermi di far cessare tutto questo, perché non posso.
Sai cosa scrisse Shakespeare?
Mercutio: Smetti di pensare a lei.
Romeo: Sarebbe come smettere di pensare.

Come sto diventando romantica. Non posso fare a meno di ridere quando ci penso. Te lo saresti mai aspettato da me? Io ti giuro di no.
Eppure tutto questo era là, compresso nel mio petto, se ne è uscito con tanta fatica, non posso ricacciarlo dentro. E sei sempre tu.
E allora vai, vivi, innamorati, divertiti, goditi il mondo. Io ci sarò, se avessi bisogno. E se per un attimo, anche solo un attimo, ti dimenticherai chi sei, leggi le mie parole. Sei speciale.
Dalla tua micetta, ora e sempre sul tetto, a guardare nel Sole.

domenica 8 novembre 2009

Una popolazione di un solo individuo, nessuna statistica

La statistica, la matematica, che belle cose!
Oggi possiamo osservare secondo quali modelli tutti noi agiamo, e ci sono modelli e funzioni praticamente per qualunque cosa.
Se dobbiamo affrontare una situazione, le statistiche ci dicono quante e quali possibilità ci sono che la cosa vada come, e così possiamo già sapere come regolarci.
Non dobbiamo nemmeno più sforzarci di capire come funziona un rapporto di coppia, perché hanno studiato un modello anche per quello, a quanto mi racconta Jacopo.
Inutile spremere le meningi, siamo tutti cifre in uno schema matematico, siamo tutti uguali, siamo tutti numeri.
La nostra vita è una serie numerica, facciamo tutti parte di una variabile, seguiamo le stesse costanti, e tutto si può calcolare.
Una grande funzione che racchiude tutta la nostra vita, con pagine e pagine di calcoli e statistiche. E' questo che siamo. Come perdersi in qualcosa che è così minuziosamente matematicamente dimostrato?
Eppure è così che ci si perde.
Stasera ho visto Jacopo. Siamo stati al cinema. Abbiamo visto "Parnassus-L'uomo che voleva ingannare il Diavolo". E' stato gradevole, due ore passate velocemente, con tanti bei colori che ci scorrevano rapidamente davanti agli occhi e pure un bel paio di tette. Proprio quel che mi serviva.
Jacopo ha lo sguardo perso. Ultimamente me ne rendo più conto del solito. E' distante chilometri da questa saletta col pavimento cosparso di pop-corn, calda, racchiusa nella sua semioscurità e le pareti di velluto rosso. Gli occhi seguono le immagini proiettate sullo schermo, ma la mente non saprei dire dove sia.
A film terminato mi dice di non aver capito quasi nulla di ciò che accadeva. Si era perso un dettaglio fondamentale. Glielo spiego, e i pezzi vanno al loro posto.
E' lontano, ormai me ne sono accorta e non posso più fare a meno di notarlo in tutto quello che fa.
Jacopo si è perso. Si è perso perché è solo un altro numero. Si è perso perché ogni sua emozione, ogni suo sentimento, è descritto in una funzione in cui rientriamo tutti.
Siamo seduti ad un tavolino al MacDonald fuori della stazione. Odio mangiare a quei tavolini, mi sembra che tutti mi fissino, sia dentro la saletta sia da fuori, attraverso il vetro. Ma Jacopo insiste, lo fa apposta perché sa che mi dà fastidio.
Parliamo. Mi racconta le sue solite storielle da nerd, che mi fanno ridere e spesso rendono impossibile prenderlo sul serio. Che occhi da bambino che ha. Mi sento sempre più mamma nei suoi confronti. Anche nel modo in cui mi fa incazzare. E dire che ci scambiano sempre per una coppietta.
Jacopo mi dice che non sa più cosa vuole. Credo di aver capito perché.
Jacopo studia ingegneria elettronica, parla di modelli matematici e gatti imburrati. Non si ricorda più che lui non è semplice numero tra gli altri, non è solo un dato all'interno di una statistica. Le statistiche non significano niente senza la storia di ogni individuo, e quindi per il singolo non vogliono dire nulla.
Prendiamo come popolazione una popolazione di un solo individuo. La statistica, in questo caso, non si potrebbe fare. E allora questo povero diavolo come farebbe? Di testa sua.
Sì, è vero, siamo tutti umani, e sì, siamo tutti uguali, siamo tutti riducibili ad una funzione. Ma la funzione la facciamo noi. Uno per uno.
Se dovessimo pensare che tutto ciò che facciamo è inutile, in quanto già descritto e dimostrato matematicamente, la funzione non ci sarebbe più.
Non siamo solo numeri, siamo individui, la nostra storia ce la scriviamo da soli.
E poi si può sempre sperare-anche inutilmente-di essere quel valore che sta al di fuori dalla curva, quello che manda ai pazzi gli studiosi di statistica.

Nota di postfazione: chiedo perdono per tutte le eventuali eresie matematiche che potrei aver scritto in questo pezzo. Non posso dire di non averci provato.

sabato 7 novembre 2009

I ricci si chiudono, tu cosa sei?

Comincio veramente ad averne fin sopra i capelli.
Adesso basta.
Adesso veramente basta.
Che diamine ha in testa la gente, mi domando.
Che cosa pensate di fare?
"Vivere!"
Ah, ok. Vivere. Certo.
Spesso mi capita di parlare con persone che mi dicono che con il mio atteggiamento "non vivo più", forse hanno anche ragione. Ma io non risiedo più nel Mondo Convesso, ormai.
Avete presente il Dr. Manhattan? Il tizio fosforescente di Watchmen, quello che va a giro tutto il tempo con il suo grosso pene blu e che ha UN tono di voce, per intendersi. Ecco. Diciamo che al momento la mia percezione del tempo e del mondo si avvicina più alla sua che a quella degli esseri umani-e lo dico con licenza poetica.
Io non vivo più, dunque. E' ciò che mi avete detto.
Benissimo. Allora permettete che vi racconti qualcuna delle vostre storie, a testimoniare quale sia la vita che intendete.

I.
Una ragazza ha una storia con un ragazzo. Lei lo ama. Davvero. Gli dà tutta se stessa, condivide tutto con lui. Dopo parecchio tempo-un anno e mezzo? due anni? non ricordo-lui la lascia. E in malo modo, per di più. Le dice che non la ama, e da tanto, che era questione di "comodità". Il mondo, d'improvviso, crolla.
Un mese dopo-ma probabilmente anche meno, non ricordo neanche questo-la ragazza ha un nuovo fidanzato, si dice soddisfatta, viva, felice. E innamorata.
II.
Un uomo è fidanzato con una sua coetanea. E' innamorato, lei pure. Nel tempo libero naviga in internet, scrive a ragazzine adolescenti o poco più, cercando di allacciare un rapporti a sfondo puramente sessuale. Si lamenta spesso dell'immaturità delle sue interlocutrici.

Io davvero non capisco. Non capisco che diamine cerchi di fare la gente, non capisco cosa voglia, non capisco perché agisca così, non capisco come pretenda di dire che va in cerca dell'amore se poi il modo in cui si lega agli altri è questo.
Non capisco perché dopo un rapporto importante, bello, che ci ha segnato profondamente si senta il bisogno di ripiegare in fretta e furia per far vedere che si è in grado di "reagire", che "si va avanti", che si è "forti".
Non capisco perché finché una storia non è ufficialmente iniziata, finché il patto non sia stato sigillato molti si sentano liberi di fare i propri porci comodi come e quando pare loro, senza nemmeno porsi il problema.
Non capisco perché persone che hanno o che dicono di avere un bel rapporto si rifugino in squallide relazioni virtuali, il cui odore di sperma rappreso si può sentire a chilometri di distanza, per poi lamentarsene continuamente, ritenendosi al di sopra di chiunque vi sia all'altro capo del filo.
Non capisco.
Non capisco, non capisco, non capisco.
Cosa credete di fare?
Questo è il vostro "vivere"? E' questo?
Grazie tante, ma non ci sto.
Voglio la mia strada, la mia strada difficile, la mia strada lunga, la mia strada tortuosa. E se non vi sembra vita, vi dò un consiglio che, per quanto classico, si dimostra sempre valido: guardatevi allo specchio.

venerdì 6 novembre 2009

Un cuore di piombo per una stella di carta

Oggi vorrei raccontare una storia.
Chi ha avuto la sfortuna di viaggiare assieme a me sa bene che c'è sempre il momento della storia, della novellina della buona notte. E' inevitabile: io sono una logorroica narratrice, e alle mie storie non c'è scampo.
Per chi mi conosce dico sin da ora che no, non si tratta di Baccellino, del Gatto Mammone o delle Principesse dal Cuore di Ghiaccio. Non stavolta.
Oggi vorrei raccontare una storia che tutti già conoscono, ma di cui ritengo vada sottolineata la poesia una volta di più.
Questa è la storia dell'Intrepido Soldatino di Piombo.
Come molte altre, questa storia parla di un diverso.
Quando il bambino aprì la scatola di soldatini che gli era stata regalata non seppe trattenere la sua gioia. Ma a questa gioia va aggiunta la meraviglia che lo prese quando vide che uno dei soldatini era speciale, differente da tutti gli altri. Questo soldatino, l'ultimo della scatola, aveva qualcosa che non andava. Aveva una gamba sola. Eppure stava bene in piedi, come tutti gli altri. Ma aveva una gamba sola. Proprio per questo, il Soldatino divenne subito il preferito del suo piccolo proprietario.
Ma in quella cameretta non risiedevano solo il bambino e i soldatini. Vi erano balocchi d'ogni tipo, pupazzi, giocattoli a molla, di quelli che oggi non si vedono più, ma che conferivano alla stanza quell'aura magica che è propria di tutte le fiabe.
C'era poi un abitante della camera che, come il nostro Soldatino, aveva qualcosa di speciale. Era una ballerina di carta. Ed era bella. Fragilissima, esile, sottile. Stava in equilibrio sulla punta di uno dei suoi delicati piedini, le braccia protese verso l'alto, l'altra gamba, tesa dietro, seminascosta dalle pieghe del vestito. Come il Soldatino posò gli occhi su di lei, splendida, in piedi come lui su una gamba sola, sentì il suo piccolo cuore di piombo sussultargli nel petto.
Capì sin dal primo istante che erano spiriti affini, la stessa essenza. Mai avrebbe pensato di trovare qualcosa di tanto meraviglioso. Qualcuno da amare.
Ma la bella Ballerina non era l'oggetto del desiderio solo del Soldatino. Anche lo Gnomo, scuro e gobbo, ne era innamorato. E quando vide il Soldatino lanciare lunghi sguardi alla Ballerina, subito nel suo minuscolo cuore nero come la pece nacque l'invidia. Perché lo Gnomo non era speciale. Lo Gnomo era solo malvagio, e, come in tutte le fiabe, la malvagità gli aveva dato forma. Perché le fiabe hanno questo potere, tutto è semplice, tutto si può facilmente riconoscere, bello vuole buono, brutto vuole cattivo, e tutti sanno sin dal principio cosa aspettarsi. Ma questo non vale per il nostro mondo. E forse è una fortuna.
Ad ogni modo, non fu l'invidia dello Gnomo la causa dell'inizio dell'avventura del nostro Soldatino. Il bambino lo posò sul davanzale della finestra, ingenuamente, come fanno i bambini, senza pensare che non è quello il luogo migliore dove lasciare i propri giocattoli. Il vento, infatti, lo spinse giù, e lo fece cadere in strada, sotto la pioggia.
Chissà cosa pensò il Soldatino. Chissà cosa si agita in un cuore di piombo. Un cuore di piombo che batte per una leggiadra ballerina di carta.
E così, il Soldatino stava là, sulla strada, con la pioggia che cadeva dal cielo plumbeo. Qualcuno, non saprei dire perché, lo raccolse e per gioco lo mise in una barchetta di carta, che lasciò andare su un rivolo d'acqua. E così ben presto il Soldatino finì dritto dritto nelle fogne.
Un luogo oscuro, sporco, pieno d'acqua in cui un pezzo di piombo potrebbe subito affondare. Specie se naviga a bordo di una piccola imbarcazione di carta, che può sciogliersi in poco tempo.
E fu nelle fogne che il Soldatino si trovò ad affrontare nuovi pericoli, come un grosso topo che tentò di afferrarlo e rovesciare la sua barchetta. E infatti la barchetta affondò, e il Soldatino andò giù, giù, giù, nell'acqua nera.
Un grosso pesce dovette pensare di certo che si trattasse di un ghiotto boccone, perché aprì le fauci e lo ingoiò in un batter d'occhio. E allora fu il buio, solo il buio.
Immaginatevi ora di essere immersi nella più totale oscurità, con la certezza di non uscirne mai più, sapendo che tutto ciò per cui il vostro cuore batte ancora è lontano da voi, forse tra le mani di qualcuno che non merita qualcosa di così prezioso, che non è in grado di capirlo, di sentirne tutta la meraviglia. Soli, nel buio, col cuore spezzato, solo voi e le vostre lacrime, mentre il tempo non scorre mai, e la vita, non sapete neppure più che cosa sia. Se gli occhi di piombo del Soldatino fossero stati in grado di piangere quante lacrime avrebbero versato!
E poi, d'un tratto, la luce. Abbagliante, per chi è stato immerso nelle tenebre così a lungo. Il ritorno alla vita, all'aria fresca, al colore, all'amore.
"E' lui, è il Soldatino!"
Incredibile ciò che era capitato, un miracolo, sapientemente diretto dal Caso. Il pesce che aveva inghiottito il Soldatino era stato pescato, portato al mercato, dove era stato acquistato proprio dalla governante del suo piccolo proprietario, che gli aveva aperto la pancia e vi aveva ritrovato il nostro piccolo eroe di piombo, che tornò dritto dritto nella cameretta da cui era partito, a rimirare la sua raggiante amata di carta.
Tutto è bene quel che finisce bene.
No.
Mi piacerebbe ora poter dire che questa è la fine della nostra storia, con il Soldatino e la Ballerina finalmente uniti, felici e contenti. Ma non è così. Perché il Soldatino doveva fare i conti con lo Gnomo.
Egli era verde d'invidia, e aveva già usato la sua magia per cercare di sbarazzarsi del suo rivale, mandandogli incontro tutti quei pericoli. Ma non era bastato. Il Caso, o forse Amore stesso, aveva riportato il Soldatino alla sua Ballerina, e lo Gnomo niente aveva potuto fare per impedirlo.
Così, usò l'ultima freccia del suo arco. E non fallì. Convinse il bambino a liberarsi del Soldatino, quell'inutile, deforme pezzo di piombo, zoppo e puzzolente di pesce. E il bambino, con l'avventatezza che è di tutti i bambini, lo gettò nel fuoco.
E fu allora che qualcosa di ancora peggiore accadde. Un nuovo soffio di vento entrò violentemente nella stanza e rapì la Ballerina, scagliandola tra le fiamme.
E fu lì, nel fuoco, che per un brevissimo istante i due furono così vicini da essere quasi sul punto di toccarsi. Un attimo. Il primo e l'ultimo. La Ballerina fu incenerita in una frazione di secondo, e il Soldatino la vide ridursi in polvere di colpo davanti ai suoi occhi. Ma il piombo non si distrugge in modo altrettanto rapido.
"Il giorno seguente, facendo le pulizie di casa, qualcuno mescolò le ceneri, ignorando, contrariamente alle intenzioni del diavoletto, di unire per l'eternità il soldatino di piombo e la ballerina di carta. A meno che il vento non disperda il piccolo mucchio di polvere grigia!"
Questa è la storia dell'intrepido Soldatino di Piombo e della Ballerina di Carta, uniti per un istante soltanto, in una fiammata.

giovedì 5 novembre 2009

Anche i vermi piatti hanno occhi

Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
-Giorgio Gaber

Firenze. La Specola.
Corso di laurea in Scienze Naturali, primo anno.
Il Vannini decide che è giunto il momento di metterci dietro ad un microscopio ad osservare un po' d'acqua di ristagno, e vedere cosa c'è dentro, sperando di trovare qualche protozoo-di cui, comunque, non c'è ombra.
Ci sono parecchi vermi piatti, che nuotano-o strisciano? coi loro due occhietti neri, che trovo paurosamente espressivi, sebbene non siano altro che puntini.
Giovanni, col vetrino coprioggetti, fa strage di vermi piatti e altri piccoli organismi, che paiono impossibili da posizionare sul vetrino per essere osservati a microscopio senza venir prima spiaccicati a dovere. Lo rimprovero, dicendogli che un bravo padre non fa così coi suoi pargoli.
Alla fine dell'esercitazione buona parte dei piccoli organismi che abbiamo tentato di osservare sono morti, chi schiacciato per sbaglio col vetrino, chi spruzzato in aria da una pipetta, chi intrappolato nella stessa.
Mi dispiace per quelle bestioline. Sono capitate nelle mani pasticcione degli studenti di primo anno a caccia di protozooi, la peggiore delle sorti.
I protozooi... Hanno pure una sessualità, a quanto pare. Mah.
Mi sono messa a pensare a quello che è significato per i nostri vermetti l'essere schiacciati. Non penso abbiano provato paura né dolore, non so nemmeno se un organismo del genere possa provare cose simili. Ma la morte ha comunque un peso. Non credo ci sia bisogno di sottolinearlo.
La vita vuole conservare se stessa. Ogni forma di vita lotta per la vita stessa, per portare avanti il proprio codice genetico, trasmetterlo. Portare avanti la vita.
Le 17:10.
Prendo il pullman per tornare a casa. Sono stanca, sento che mi sta venendo un bel mal di testa. Ascolto la musica e rifletto. Rifletto sulle parole, sull'eco che producono nella mia testa, sullo strisciare dei vermi piatti, sui loro piccoli, piccolissimi occhi.
Mi alzo per scendere. C'è una donna con un bambino piccolo, appena nato, in una culla. Si sposta per farmi passare, e io sbircio dentro. Vedo una testolina rosea sbucare da sotto una copertina azzurra. Apre la bocca. Sbadiglia. Vedo la sua piccola lingua rossa e le gengive da cui un giorno spunteranno i dentini da latte, e penso: "Questa è la Vita. E va avanti".
Una femmina che non può dare alla luce un individuo in grado di procreare ha perso il suo appuntamento con la vita.
Questa frase mi rimbomba in testa da giorni. Ha perso il suo appuntamento con la vita. Suona tremendamente. Fa paura. Mi fa paura.
E se io non ci riuscissi? Se non fossi in grado di farlo?
L'umanità che ci siamo attribuiti vuole insegnarci che ci sono altre cose che possiamo fare, ci sono altri valori e ideali, altre cose a cui dedicarsi. Ma se il nostro scopo biologico primario è questo, che significa non realizzarlo?
Scendo dal pullman. Vado a casa.

martedì 3 novembre 2009

A me la pioggia

...and it's hard to hold a candle
in the cold November rain...
-Guns N' Roses

Sorvoliamo sui miei fallimenti nello studio della chimica.
Sorvoliamo sulle galle su mani e piedi, sul sesso tra protozoi e sul vomiticcio nero.
Sorvoliamo sul fatto che in questi giorni mi sento la testa talmente imbottita d'ovatta che non sono minimamente in grado di pensare e agire da persona normale-ho persino sbattuto contro una porta a vetri chiusa, ma dico, si può essere così idioti?
Sorvoliamo sugli eccessi d'emotività dell'ultima settimana, su Sex & The City e sulla lacrima facile.
Sorvoliamo sul fatto che mi sto progressivamente tramutando in un cliché di donna-e quarantenne, per di più.
Sorvoliamo su tutto questo.

Ieri a Firenze c'era la nebbia. Be', più o meno.
Un freddo allucinante, aria in cui galleggiano particelle d'acqua già congelata, umidità, foschia.
E poi la pioggia.
In effetti ci voleva coraggio per chiamarla così. Poche goccioline cadute durante la lezione di zoologia, ma hanno fatto il loro effetto.
Esco dall'università e il miracolo è avvenuto: una fioritura di ombrelli che camminano su e giù per le strade. Succede sempre così, anche quando non si può veramente parlare di pioggia. Come cade la pria goccia si schiudono in tutta fretta, e agli angoli delle strade i venditori spuntano come funghi, in meno di un secondo.
"Vuoi un ombrello, bella?"
E no che non lo voglio, l'ombrello! Non sta nemmeno piovendo davvero! Eppure eccoli là, hanno invaso i marciapiedi, ombrelli di tutti i colori, di tutte le forme e dimensioni possibili.
Uno scudo tra noi e il cielo, e quello che ci cade addosso da lassù, più o meno inaspettatamente. Che venga giù a torrenti o a schizzi pare non faccia differenza: ci vuole l'ombrello, fine della storia. Bisogna proteggerci. E poi ora c'è pure la suina, non sia mai che ci si possa prendere qualcosa.
Che strana la gente che corre ai ripari. Com'è buffa. Si scherma dalla pioggia, dal sole, dal vento, dall'aria, dal fango, dal freddo, dal caldo, dal dolore, dalla delusione, dalla solitudine. Dai sentimenti. Dai propri sentimenti. Dall'amore. E dice di cercarlo. Ma che cerchiamo? Cosa vuoi che ti succeda finché stai sotto un ombrello, un paralume, una campana di vetro.
Non voglio l'ombrello. Se piove voglio prendermi la pioggia.

domenica 1 novembre 2009

A ginocchia scoperte

La torta è meno bella di quanto lei aveva sperato che fosse. Cerca di non dar peso alla cosa. E' solo una torta, si dice. Solo una torta. Lei è Richie l'hanno glassata, e lei ha colpevolmente inventato qualcos'altro da fare per il bambino mentre componeva delle roselline gialle sui bordi con una siringa e scriveva: "Buon compleanno Dan" con la glassa bianca. Non voleva il pasticcio che avrebbe fatto suo figlio. Comunque non è venuta come lei se l'era immaginata: no, per niente. Non ha niente che davvero non vada, ma si era immaginata qualcosa di più. Se l'era immaginata più grande, più straordinaria. Aveva sperato (lo ammette solo con se stessa) che sarebbe stata più ricca e più bella, più strepitosa. La torta che ha fatto le sembra piccola: non solo in senso fisico, ma nella sua entità. Sembra amatoriale, fatta in casa. Si dice: è bella. E' una bella torta, piacerà a tutti. Il suo aspetto sgraziato (la dispersione di briciole nella glassa, la "n" schiacciata in "Dan", arrivata troppo vicino a una rosa) fa parte del suo fascino. Lava i piatti. Pensa al resto della giornata.
[...]Laura riporta il figlio nel salotto, lo rimette davanti alla sua torre di blocchi di legno colorato. Una volta che lui è sistemato, ritorna in cucina e, senza alcuna esitazione, prende la torta e la fa scivolare dal piatto bianco latte nel cestino della spazzatura. Atterra con un suono sorprendentemente solido; una rosa gialla si è spalmata contro il lato curvo del cestino. Si sente immediatamente sollevata, come se delle strighe d'acciaio intorno al suo petto fossero state allentate. Può ricominciare, adesso. Secondo l'orologio a muro sono appena le dieci e trenta. Ha tutto il tempo per fare un'altra torta. Questa volta impedirà alle briciole di finire nella glassa. Questa volta traccerà le lettere con uno stuzzicadenti, così saranno centrate, e lascerà le rose come ultima cosa.
-Michael Cunningham, Le Ore

Halloween è passato.
E anche questa l'abbiamo fatta.

Sono andata a casa del Polly per prepararmi alla serata, dove mi aspettavano lui e la Sara, che insieme a me ha avuto un bel po' da litigare coi vestiti.
Poi la fase di trucco. Massima cura nello stendere un velo di bianco sul viso e nel ripassare il contorno occhi col pennello... Da vere artiste, insomma.
Il Polly invece, vestito con abiti militari, elmetto nero in testa, prende il tubetto di sangue finto e comincia a spremerselo sulla faccia con grande entusiasmo. E' andata a finire in un macello di chiazze rosse su volti, e sì, anche vestiti.
Siamo usciti di casa che parevamo tre personaggi venuti fuori da un qualche film di Quentin Tarantino, uno sminatore nazista, una pin up boscaiola con le gengive spaccate e una punkabbestia con la stesta piena di crepe. Davamo decisamente spettacolo.
Bisognerebbe saperlo che queste serate son sempre così: ci si combina da perfetti idioti e si passa il tempo ad osservare le reazioni dei soliti anonimi che si incrociano sugli autobus. Ma siamo belli, belli da morire, che possiamo farci?
Ok, cerchiamo di essere onesti: mi fa sentire terribilmente a disagio vestirmi "da donna". Non mi ci ritrovo proprio per nulla, mi sembra di non avere altro che difetti spalmati su tutta la superficie del mio corpo, e come li vedo io dovranno pur vederli anche gli altri, no?
O magari no. Magari è solo un grosso specchio deformante nel mio cervello. O in quello degli altri. Chissà.
Non so come descrivere tutta la lunga serie di masturbazioni mentali in cui rimango invischiata ogni volta che mi capita di pensare a questo genere di cose, eppure in realtà dovrebbero essere problemi che non sussistono. In fondo, non sono niente di così fondamentale o terribile. Ma se ci si inciampa un motivo dovrà pur esserci, qualcosa di più complicato di ciò che appare, di più radicato e sfaccettato.
Mi limito a chiamarlo senso di inadeguatezza.
No, probabilmente non è niente di reale, è tutta una mia impressione, ma per l'appunto è lì, ben piazzata nella mia testa, e non sembra proprio essere intenzionata a levare le tende. Si fa sentire ogni volta che può, ed ha una vocetta nasale, irritante. E rende più difficile fare cose che dovrebbero risultare semplici.
Senso di inadeguatezza, ma inadeguatezza nei confronti di cosa?
Non lo so nemmeno io. Divertente. E da teen ager. Perfetto.
Non si tratta di qualcosa che riguarda solo me. Senso d'inadeguatezza, inettitudine... Hanno scritto libri che ruotano su quest'unico perno.
Manca sempre la soluzione però. Un modello col quale identificarsi, e nessuna soluzione nemmeno per lui.
E ancora quale sia il vero problema non è chiaro. Nasce da un groviglio di insicurezze, di frustrazioni, di problematiche, che eppure devono essere banali.
Inadeguatezza a cosa? Alla vita?
No, probabilmente no.
Vorrei solo ficcare una patata nella gola da cui esce quella fottuta vocetta nasale.