domenica 28 febbraio 2010

Enjoy the Silence

Enjoy the Silence.
C'è tutta una spvrastruttura sulle parole e i fatti, sul valore del silenzio, sull'invadenza delle cose dette: ma in buona sostanza il concetto è "baciami, stupido!"
-Luca Sofri, Playlist

Ho ripulito la mia scrivania. Anche se non sembra. Ci sono ancora mucchi di oggettini privi di senso e di ragioni di esistere infilati in qua e là: una moneta del 1863, un piccolo ferro da stiro, modello casa delle bambole, sei gomme da cancellare a forma di macchinina, vari piccoli oggetti a forma di fungo, dadi, spille da balia, biglietti da visita, pezzetti di fil di ferro...
Durante i miei scavi ho ritrovato il mio quadernino rosso di quando ero in terza superiore, con la copertina sciupata e una frase in russo scritta sopra. Significa: "State lasciando il settore americano".
Dentro ho ritrovato appuntati molti testi di canzoni, frasi di libri, di film, macchie nere e ditate. E questa frase.
Ricordo che mi era tanto piaciuta. Anche se non aveva probabilmente nulla a che fare con me allora. E forse, neanche adesso.
Io parlo. Io parlo un sacco. E pure di corsa. Senza respirare. E pure a volume alto.
Ci metto tanta energia e tanta foga che mi vengono le vertigini, e sento come se il sangue si concentrasse tutto nella testa. Non posso stare zitta, non posso non dire. Devo alzare il volume, devo dire le cose più velocemente, devo farmi ascoltare. Per forza. Anche se non c'entra nulla. Anche se a nessuno interessa.
Tutta quest'ansia, tutto questo bisogno di raccontare, di comunicare, non so da dove mi vengano. E mi pare non servano a niente. Perché non sto semplicemente zitta?
C'è, c'è sempre un momento in cui non parlo, in cui non dico quello che vorrei. Ed è difficile. Starsene lì, e sentire le parole che quasi mi scappano dalla bocca, indipendentemente dal cervello, indipendentemente dalla mia volontà cosciente. Se ne vogliono andare, vogliono essere dette, e le riprendo sempre per un pelo. Come quando si regge l'anima coi denti.
Qualche volta mi sorprendo mentre sto già prendendo fiato per lasciarle andare. E mi fermo. Il cuore mi schizza in gola, la mandibola si serra. E le labbra tremano. Come le ginocchia. Il battito accellera e così il respiro, la vertigine aumenta, e vedo il baratro sotto i miei piedi. Non posso dire niente adesso.
Un giorno mi scapperà la parola sbagliata. Almeno spero succeda nel momento giusto.
Il valore del silenzio. L'invadenza delle cose dette.
Qualcosa che forse dovrei imparare. Ma il silenzio non è mai vuoto. Ci sono le cose non dette, nel silenzio. E lasciarle lì non le cambia, e non sono nemmeno sicura che le metta in stand-by. Molto più probabilmente, le fa crescere.
E' vero, per me ci sono cose difficili da dire, perché l'emozione arriva prima della parola. Ma non sono capace di tacere nulla. Adesso mi frena solo la paura. La Paura Grande. Mi sta profondamente sulle scatole.
Vorrei avere mani da mettere avanti, ma non servirebbe. E non servirebbe nemmeno sminuire il tutto, fingere che non abbia importanza. Come l'orgasmo.
Posso fermare le parole tra i denti, ancora una, due, tre, mille volte. Ma il Silenzio non cancella niente.

domenica 21 febbraio 2010

Upupa

Molti di noi da bambini probabilmente hanno provato la sensazione di tenere un uccellino in mano. Qualcosa di caldo, piccolo, tenero, immensamente fragile, che si dibatte, mentre con le dita si possono sentire le minuscole ossa e il cuore che batte veloce. Si ha paura di romperlo, stringendo appena un po' troppo forte.
La sensazione di avere una vita nelle proprie mani. La sensazione di avere La Vita nelle proprie mani. Qualcosa che mi sembra molto simile a ciò che deve essere un miracolo.
Da piccole io e le mie amiche avevamo dei canarini. Ogni tanto ci divertivamo a farli svolazzare liberi per la stanza, senza renderci conto di quanto dovesse essere spaventosa quell'esperienza per loro. Andavano a sbattere contro le pareti, il lampadario, e spesso rimanevano incastrati tra muro e letto, o nel termosifone. Quando riuscivamo a riacchiapparli e rimetterli in gabbia il loro cuoricino batteva all'impazzata, le penne erano arruffate e il respiro affannoso. I bambini non si rendono conto di certe cose. Pensano sia tutto un gioco.
Una volta uno dei miei canarini scappò, e non so come lo ritrovammo vicino al fiumiciattolo che passava sotto casa.
Mia madre mi raccontò che anche lei aveva un canarino, che volò fuori dalla finestra e non tornò più. Le si stringe ancora il cuore a pensare alla fine che avrà fatto.
Le rondini facevano lezione di volo fuori dalle nostre finestre all'Isola D'Elba. Mi ricordo ancora perfettamente i loro richiami, e il modo in cui si dondolavano avanti e indietro, quando si appollaiavano tutte in ordine sul filo del telefono.
Non ne ho mai vista nessuna cadere. Eppure deve essere successo. Per questo gli uccelli fanno tanti piccoli: per la certezza che qualcuno sopravviva. Selezione naturale.
Invece un uccellino caduto lo abbiamo incontrato anche noi. Uno storno, che mia madre aveva chiamato Stella jr.
Quando la abbiamo trovata era un esserino piuttosto disgustoso, tutta spennacchiata, con la pancia gonfia e solo due ciuffi di piume ai lati della testa. Sembrava Einstein.
Le davamo da mangiare pan grattato e macinato, e l'acqua con un contagocce. Viveva in un cestino, che riempiva puntualmente di reperti organici piuttosto maleodoranti, e le piaceva stare appollaiata sul bordo, spalancando il becco e strillando per richiamare la mia attenzione.
In una settimana si irrobustì, mise tutte le penne e cominciò a tentare qualche voletto fuori dalla cesta. Così la portammo alla LIPU. Aveva ancora i due ciuffetti da Einstein.
Uno dei miei ricordi più belli però è questo.
Quando avevo undici anni passai le vacanze di Natale coi miei genitori in Senegal, a Dakar. Un giorno, mentre giravamo per la città, mio padre mi fece comprare un uccellino in un mercato. Lo presi in mano, e sentii il suo piccolissimo cuore che pompava veloce il sangue in tutto il suo minuscolo corpo, mentre cercava di agitare le zampette e le alucce nel tentativo di volare via.
Ricordo di averlo tenuto stretto per un attimo, mentre il mio cuore batteva forse più forte del suo, di avergli dato un piccolo bacio sulla testolina arruffata e di aver aperto le mani. E' volato via, in un istante, battendo forte le ali, come qualcosa di veramente libero.
L'altra notte ho sognato un'upupa, che se ne stava dietro una porta a vetri aperta, appollaiata, tranquilla, e mi guardava. Mio padre voleva spararle con un fucile, senza un vero motivo. Io e mia madre volevamo impedirglielo, ma lui continuava a puntarle quel fucile contro, e non si è fermato nemmeno quando ci siamo messe tra lui e l'upupa. Alla fine, ha sparato, e l'ha colpita alla testa. Un foro piccolissimo, per una pallottola di fucile. E io mi sono sentita dilaniare dentro per non essere riuscita a salvarla.

mercoledì 17 febbraio 2010

Rovesciamento

Il tempo scorre, e un mese ci mette pochissimo a passare. Soprattutto febbraio.
E' facile gettare un'occhiata alle mie spalle, e vedere passo dopo passo come sono arrivata ad oggi. Le cose cambiano aspetto viste da questa prospettiva.
Ho smesso di guardare il Mondo Convesso da fuori, ma non sono tornata dentro. Mi piace starmene da sola col mio Tempo, tutto il Tempo che voglio. E vederlo scorrere.
Sono in alto adesso, molto in alto, in un cielo bianco neon. Il Mondo Convesso è sotto di me, distante, un enorme vortice di voci e di volti, di storie. Più storie di quante io ne possa raccontare, e più di quante possano interessarmi.
Lo trovo quasi divertente. Ma non credo di voler tornare là. Le cose sono diverse viste da fuori, nella dimensione del Tempo e della verità.
Però star qui è un non vivere.
Provo forte, chiara e distinta una vertigine, che mi prende alla bocca dello stomaco e mi fa girare la testa, e sento il sangue fluire, e tutto il mio corpo che pulsa, come invaso da un calore torbido. E mi piace.
La sensazione è quella di essere sul punto di cadere, di nuovo. Ma ora è diverso.
I sensi si eccitano, le ginocchia tremano. Il respiro si spezza ancora una volta, ma non soffoco. L'aria non si chiude intorno a me, ma si apre, e qualcosa si irradia tutto intorno. E rimango sospesa su un filo, un brivido.
Sono terrorizzata. Il salto fa paura, tanta paura. Ma non vedo l'ora di tuffarmi.
Potrei anche rompermi l'osso del collo, in effetti. Oppure, e questo sarebbe peggio, potrei spezzarmi braccia e gambe, e la schiena, e rimanere lì come detrito umano semifunzionante. Chissà quanto durerebbe.
Ma non mi va di pensarci.
Il vuoto è qualcosa da riempire, la mia paura è solo frutto dell'ignoranza, la vertigine è la spinta per qualcosa in più.
Potrei stroncarmi le gambe. Ma potrei anche rimanere sospesa, fluttuare, e magari volare, anche.
O molto più probabilmente stroncarmi le gambe.
E' così, non c'è niente da fare. Ma dovrò decidermi prima o poi.
Per adesso mi godo la mia vertigine.
Fa bollire il sangue.

venerdì 12 febbraio 2010

Sei la luce alla fine del tunnel

Eccomi qua.
Mi sono appena detta di andare a dormire, ma so che sto per passare un'altra notte in bianco. Non posso farci niente, non riesco a dormire. Soprattutto adesso. Soprattutto adesso che sono sola.
Sono finalmente riuscita a finire di vedere Human Traffic. Ero proprio curiosa di vedere cosa sarebbe successo.
Ho ascoltato per ore il ronzio delle parole nella mia testa, ho ascoltato la mia voce pronunciare interi discorsi in una situazione immaginaria. In un immaginario dialogo con te.
Mi sono ripromessa di dirti tutte queste cose, esattamente come le ho pensate, uno di questi giorni. Ma già so come andrà a finire. Un po' me ne dimenticherò, un po' avrò paura. L'unica incognita è se mi prenderà di più il riso isterico o il pianto.
E allora ho deciso di scriverle qui, quelle parole, di annotarle, di fermarle da qualche parte per non doverle rinnegare a me stessa dopo.
Sei la luce alla fine del tunnel.
No, so già cosa stai pensando. Non sto dicendo niente di più di quanto io stia effettivamente dicendo. Quindi ora ascolta.
Ti ricordi quando ci siamo conosciuti, ti ricordi come stavo. Forse ti ricordi anche quella mia telefonata in lacrime. Un po' ti dispiaceva per me, un po' ne ridevi. Ma sai quanto io sia stata di merda.
E' come se avessi camminato in un tunnel, molto lungo, freddo e umido. E non fare quella faccia adesso, non c'è nessun doppio senso, dai. Siamo seri un minuto. Fammi finire.
Sono stata al buio, per mesi. Non è bello guardare davanti a sé e non vedere niente. Ma questo te l'ho già raccontato.
E poi, finalmente, ho visto un piccolo bagliore in lontananza. Piccolo piccolo. Ma proprio piccolo, eh. Quello eri tu.
Ora, non farti le strane idee che ti starai già facendo. Con questo non sto dicendo niente, non sto sottointendendo niente, né che mi sono innamorata di te, né altro.
Né sto togliendo niente al bene che ti voglio.
So solo che non voglio un giorno guardare indietro, guardare a questa storia e pensare che ho sbagliato, né voglio che tu lo faccia. Non voglio che debba mai succedere qualcosa per cui si arrivi a pensare di voler cancellare tutto, tutto quello che è stato, e dire che sarebbe stato mille volte meglio non fosse mai successo. Questo non deve succedere a noi.
E poi che vada come vada. Non sto dicendo che durerà in eterno, né che voglio sia così. Ma non voglio che ci sia mai niente per cui tutto questo vada cancellato.
Ti voglio bene.
Sei la luce alla fine del tunnel.

mercoledì 10 febbraio 2010

Immagini di questa notte, del risveglio, di questa giornata

Stanotte non riuscivo a prendere sonno.
Il pensiero di aver dato e superato il mio primo esame, aggiudicandomi un bel "ventisette", scritto a caratteri ordinati sul mio libretto, non mi fa sentire affatto sollevata. La consapevolezza che un altro esame è alle porte è molto più forte del sollievo.
In più, a togliermi il sonno c'erano le condizioni in cui versava la mia testa. Dire che mi faceva male non rende abbastanza l'idea. Avete visto il cartone "Il Gobbo di Notre Dame", trentaquattresimo film d'animazione della Disney? Ecco. Avevo tutte quelle stramaledette campane che mi sbattevano in testa, amplificate al massimo, e ogni singolo gggooooonnnngggg si ripeteva un'infinità di volte. In queste condizioni non si è nemmeno in grado di pensare. Né di vedere. Le immagini si sdoppiano, traballano, saltellano quasi, proprio davanti agli occhi, sotto la punta del naso, tremolanti, con tutta l'aria di esser lì esclusivamente per prenderti per il culo.
Mi sono addormentata solo verso l'alba, e ho fatto sogni strani, biblici, pieni di sangue.
In una prima fase era tutta una finzione, un gioco. Poi si trasformava in realtà, un revival dell'ultima piaga di Egitto, in cui bisognava tingere di sangue la porta di casa per evitare la catastrofe. C'era una donna con me, anche se non la ricordo nitidamente. Era alta, scura e coi capelli corti. Aveva l'aria di saperne un bel po'. Ma non aveva molta voglia di dare spiegazioni.
Ha preso un bambino appena nato e gli a spaccato la testa contro un muro, facendo schizzare il sangue ovunque. Sembrava ketchup.
Ha iniziato a strizzarlo, e dalla spaccatura nel cranio usciva sangue, tanto sangue, con cui segnava le porte e le fronti delle persone. Per salvarle. Ma non saprei dire da cosa.
Ha detto che era necessario. E io non ho fatto domande.
Poi ho cominciato a destarmi dall'incubo.
Piano piano, il cervello ha cominciato a scollegarsi, mentre iniziavo a percepire i raggi del sole che mi battevano sulle palpebre. E ho sentito una voce che mi parlava. La voce di qualcuno inginocchiato accanto al mio letto, che mi sussurrava parole nell'orecchio, parole che ho distinto, chiaramente, e che non riuscivo a credere di aver udito. Ho riconosciuto la voce, subito, ed ho aperto gli occhi, quasi scattando all'indietro. Ma non c'era nessuno. Ovviamente.
So chi è stato a parlarmi, so cosa mi ha detto. E in qualche modo ci credo. O voglio crederci. Vedremo se sto facendo bene.
Mi sono svegliata con un gran mal di testa, e un gran mal di tutto. Mi sentivo scricchiolare. La vita della studentessa, tappata in casa coi libri, che passa dalla scrivania al letto, non fa proprio per me. Mi rende acciaccata, nervosa e cigolante. Ma al momento questo mi tocca.
Ho quasi avuto un colpo quando, andando a prendere i libri per studiare, mi sono accorta di non avere quello che mi serviva. E quindi ho speso l'equivalente di un rene umano in sms e telefonate per vedere se qualcuno poteva salvarmi in extremis procurandomi il libro giusto. Il salvataggio è avvenuto, e ho potuto concentrarmi sui protozoi.
Bestioline odiose, i protozoi. Non mi sono mai piaciuti. Loro e la loro grande variabilità riproduttiva, i loro flagelli e le loro ciglia. E il sesso. Il sesso tra protozoi. Uno dei più grandi sprechi della natura. E la parte peggiore è che vanno in culo a tutti. Al diavolo.
Domani i miei partono. Mi aspettano giorni di isolamento. Soltanto io, il cane e i libri. E un esame da dare. Un altro. E poi? Poi si comincerà a preparare chimica.
Almeno eMule ha ricominciato a funzionare. Però ora che va di nuovo, tutti gli altri programmi sono rallentati in maniera snervante. Era ovvio.
Ma basta lamentarsi.
Non voglio pensare. Non a tutto questo.
Voglio che il mio ricordo di oggi sia la voce che mi ha parlato al risveglio. Sarà banale, ma mi va bene così.
Buongiorno...

venerdì 5 febbraio 2010

Orgasmo

Il titolo serve a vendere il prodotto.
Non si parlerà di vibratori o di grandi scopate qui. Non adesso almeno. Anche se tengo in alta considerazione l'idea di Davide di ricorprire tutte le pareti del Malatesta con immagini pornografiche. Appoggio a pieno il progetto, e se serve aiuto per convincere Piero si può certamente contare su di me. Ma non è questo che volevo dire.
L'Orgasmo è un cocktail, come anche lo Screaming Orgasm e il Sex On The Beach. Anche se forse questo non è il loro giusto ordine di successione. Il che mi ricorda un paio di sbronze, una Giulia molto più barcollante del solito e una Virginia dalle pulsioni insolite.
Trovo che sia una metafora interessante. Non basta un solo ingrediente per raggiungerlo, ma occorre una combinazione, e una combinazione giusta, che lo rende quasi uno stato mentale più che fisico.
E' uno stato di assoluta presenza, arriva quando lo si può accogliere, non c'è se non si è effettivamente là ad aspettarlo.
E' uno stato di assoluta assenza, scaglia la mente al di fuori delle proprie barriere, per un istante luminoso.
Si tende spesso a dimenticarne il senso, il valore, il peso, quasi a darlo per scontato, a farne solo una questione di abilità. Ma non è tutta qui la faccenda.
C'è molto di più dietro, ci può essere molto di più, dovrebbe esserci molto di più.
Giulia, ti ricordi la grande muraglia di sabbia? Credo di aver visto al di là.

martedì 2 febbraio 2010

Fanculo la maglietta di Kierkegaard

Sto perdendo del tempo in cui avrei dovuto studiare, scrivendo qui.
No, non voglio dire che lo sto sprecando, non è vero e non mi piace nemmeno come suona.
Lo sto impiegando diversamente, ecco.
Lo sto impiegando diversamente per qualcosa che ritengo veramente importante.
Non voglio invadere lo spazio di nessuno, e ognuno ha diritto al suo spazio. Non voglio entrare nella casa, o nella testa di qualcuno, piantarmi lì di mia iniziativa e aprire i rubinetti. Ogni cosa a suo tempo. E c'è un tempo per ogni cosa.
Il Tempo.
In effetti, dove sono io c'è solo quello. Nient'altro. Quindi è facile capire quanto sia relativo per me un giorno, una settimana, un mese. Io non ho scadenze, non ho orari, non ho una fine. Ho il Tempo, e devo soltanto riempirlo. E un'idea sul come farlo l'avrei.
Non sono ancora una donna, ma non sono certamente una bambina, che sia facile da credere o no. Ho il cervello necessario per capire le cose, anche se mi manca l'esperienza. Ci sono molte cose che non conosco ancora, ci sono molte cose che devo vedere. E molte idee che devo farmi. Ma non sono così bambina da non poterle affrontare. Alla fine, ho sempre fatto quello che dovevo, in un modo o nell'altro, con o senza paranoia. Forse ho fatto un po' più fatica di altri. Ma l'ho fatto, Cristo. Questo conta.
La mia emotività è in grado di piegarmi la schiena, farmi rimbombare per giorni le parole nella testa, farmi sentire cento volte lo stesso colpo, sempre con la stessa intensità. Non è sempre divertente. Ma sono fatta così, questa è la mia testa, e anche se non ci si abitua mai a queste fucilate si impara a vivere lo stesso, digrignando i denti magari, non riuscendo a dormire la notte, ma comunque alzandosi ogni mattina e facendo quello che bisogna fare. Sta qui il mio piccolo punto di forza: nel fare le mie cose anche quando la testa non c'è più.
Oggi la mia testa non c'è, per esempio. E' vero, in questo momento non sto facendo il mio dovere, ma è importante che io dica queste cose ora e qui. E' maledettamente importante. Non so nemmeno io dire precisamente perché.
La mia testa non c'è. Io non ci sono. Ho qualcosa da risolvere, prima di tutto.
Ho scelto di imboccare una strada che stavo già pensando mi sarebbe piaciuto prendere, e quando mi è stata indicata non ho avuto troppe esitazioni. Non è una strada diritta, non è un lungo rettilineo. E' una strada lunga, e non si sa dove conduca. E questo fa paura. Anzi, fa molta paura. Diciamo le cose come stanno: mi terrorizza. E non solo me.
Ormai sono qui, e non posso tornare indietro, far finta di non aver fatto questo percorso, che nulla sia accaduto e riprendermi quello che avevo fino ad un attimo fa. Non mi basterebbe più. Sono qui per rischiare, e il rischio lo voglio correre sul serio, e non voglio accontentarmi di un tentativo fatto a metà, per la fretta.
Le cose se si fanno van fatte per bene. Davanti ad ogni situazione bisogna prendersi tutto il tempo necessario per valutarla, analizzarla, riscontrarne i problemi e vedere se e come possono essere risolti. Bisogna essere in grado di dare e incassare colpi. Bisogna prendersi la responsabilità di quello che si sta facendo. E non mi pare si tratti di una cosa da bambini.
Se non valesse mai la pena di correre il rischio di fracassarsi contro un muro, o contro un treno, spezzandosi ogni singolo osso, forse sarebbe meglio scomparire nel nulla, come se non si fosse mai nati.
Io il rischio lo voglio correre. Voglio avere il tempo di farmi del male o di essere felice, e voglio impiegare ogni secondo necessario per scoprire quale delle due cose sarà. Dammi solo la possibilità di farlo. Fidati di me. E sii ottimista.

lunedì 1 febbraio 2010

Martina Paranoica

Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi
se tu ti proponessi di recitare te
Emilia Paranoica
CCCP

Stai tranquilla.
Tutto passa.
No, non è vero. Si risolve, ma non è detto che passi.
Va bene allora. Tutto si risolve.
No, no... Non si può risolvere tutto. Non che abbia problemi così grossi da non poterli risolvere. Ma non si può risolvere tutto. Ci sono cose per cui non si può fare niente. Come quel discorso che facevamo sulla pena di morte. Ma non c'entra niente con me, forse, vero?
Va bene, va bene, andiamo avanti.
Tranquilla.
Cerca di non pensare.
No. Impossibile. E' impossibile non pensare. Come quando ti dici: "Adesso non penso a niente". Non è vero. Stai pensando a non pensare. E quindi pensi. Oddio, mi devo calmare. Qual è il problema, in fin dei conti?
Devo abituarmi a guardare le cose dall'esterno, come un film.
Quando osservo mi sembra sempre più semplice. E forse il punto è proprio questo: che è semplice. Perché non può esserlo anche per me?
Che cosa c'è veramente che non va in questa storia, per esempio? Niente. Tutto è al suo giusto posto. Tranne l'orgasmo. Come suona pesante questa parola. Non dovrebbe.
Non dovrebbe perché io dovrei sentirmi tranquilla. E io dovrei sentirmi tranquilla. Ma non è così.
Va tutto bene. Va veramente tutto bene. Non lo dico per convincere me stessa o chiunque altro, ma perché è vero.
Ho la tendenza a complicarmi la vita. Perché devo trovare quello che non va anche quando non c'è?
Ora, per esempio. Mi fermo, e guardo le cose nella giusta prospettiva. Perché stavo piangendo ieri notte? Quale problema reale era così insormontabile da farmi piangere? In tutta franchezza, non lo so nemmeno io.
O meglio: non so cosa ci fosse di così grave.
So quale sia stata la mia preoccupazione. Ma in effetti, non è così grave.
Sono su una strada, né troppo spaziosa né troppo stretta, non trafficata, accogliente, l'illuminazione mi piace, l'aria è alla giusta temperatura. La passeggiata, quindi, è assai gradevole. Ma non ho idea di dove io stia andando.
Perché deve essere un problema?
Non posso godermi questo giretto in santa pace? Sì che posso. Ma non mi riesce.
No, no, no, "non mi riesce" non si dice.
Devo per forza andare da qualche parte? Certo. Sto effettivamente andando da qualche parte, solo non so dove. Ma so dove vorrei arrivare. E questa potrebbe essere la strada adatta. Oppure potrei cadere da un dirupo e morire. No, anzi: potrei cadere da un dirupo e rimanere lì agonizzante. Sì, questo è molto peggio.
Perché penso certe cose? Perché è così divertente fare la grande disillusa? No, non è questo, non lo trovo affatto divertente.
Sono emotiva. E paranoica. Ma non voglio incentrare la descrizione di me stessa su questa seconda caratteristica. Non vorrei che la gente si ricordasse di me per le mie ossessioni su come ritengo vada riposto il sapone.
Sono emotiva. Qualunque cosa mi accada intorno mi colpisce con intensità raddoppiata rispetto al normale. E quindi, quando sembro una bambina non è tanto perché sono infantile, immatura e via di seguito. Sono solo sopraffatta da qualcosa. Devo ancora imparare a gestire certe situazioni.
Non ho sempre potuto [o voluto] mostrare quello che provavo, ed il risultato è che adesso l'emotività mi esce da ogni parte. Come se fossi una fontana.
Sì, forse sono una bambina, ma non voglio farne un nuovo handicap.
Ora voglio concentrarmi.
Stai tranquilla.
Tutto passa.