lunedì 25 gennaio 2010

Sogno

I miei hanno fatto le valigie. Partono per qualche giorno.
Le solite parole di raccomandazione, il cane, la stufa, la spesa, l'aspirapolvere. Tutto come al solito.
La porta si chiude. Rimango da sola.
Vado a letto, mi stendo, mi addormento.
Un rumore accanto alla mia testa mi risveglia nel cuore della notte. Mi giro con fatica, e vedo un gatto, che con le unghie sta sfilacciando una mia vecchia borsa, comprata ormai otto anni fa, in un porto, in Norvegia. Un gatto tigrato. Grigio. Un po' grassottello.
Capisco subito che si tratta di una bestia dotata di un caratteraccio. Nonostante i miei sforzi per impedirglielo, continua ad afferrare tra le zampe e a ridurre in pezzi tutto ciò che trova. Ha un'espressione dura, cattiva, aggressiva, e mi fa paura.
Quando cerco di buttarlo fuori lanciandogli contro un'altro gatto, bianco e marrone, molto più affettuoso-venuto fuori da chissà dove-il distruttore felino si alza in piedi, diventando altissimo e magrissimo, e per di più rosso.
Dall'alto della sua nuova postura, il gatto mi parla: "Sono stato mandato qui dall'Inferno. Ho il compito di aiutarti. Domani farai qualcosa di molto stupido, e morirai. Sono qui per impedire che questo accada."
La storia del gatto infernale non mi convince, vorrei solo che se ne andasse. Però voglio essere sicura di non correre rischi. Gli chiedo di dirmi che fare e di andarsene, ma non vuole rivelarmi niente. Alla fine, lo butto fuori. Saprò cavarmela.
Intanto si è fatto giorno.
Qualcuno suona alla porta. Memore dell'avvertimento del gatto, guardo dalla finestra prima di aprire. Vedo una macchina, e dentro ci sono tre uomini sconosciuti. Capisco subito che non è il caso di aprire. Ma ho paura, e mi sento in trappola. Vado alla finestra dal lato opposto della casa: voglio saltare giù e cercare aiuto. Con me, c'è il mio cane. Non voglio lasciarlo solo. Ma non riesco a convincerlo a saltare-e d'altronde, come potrebbe?
Così compio la mia evasione da sola. Mi accorgo subito però che i tre uomini stanno cercando un modo per entrare in casa. Ho paura che facciano del male al mio cane. Anzi, ne sono certa. Così, torno indietro.
Mi vedono. Non so come comportarmi. Sono in preda al panico. Talmente in preda al panico che apro la porta e li lascio entrare. Che cosa stupida.
Non sono solo tre. Sono una banda intera.
Si riversano in casa e cominciano a smantellare tutto. Portano via tutto. E io glielo lascio fare. Anzi, dò loro una mano, cerco di essere gentile. Ho troppa paura.
Ho paura che mi facciano qualcosa. Ho paura di quello che mi ha detto il gatto.
Voglio solo che se ne vadano. Voglio solo che finisca.
Vedo il gatto affacciato alla finestra, con altri due gatti. Però adesso è giallo.
Lo chiamo e gli chiedo cosa devo fare.
"Semplicissimo,-dice lui-devi solo andare là e parlargli dell'Amore. Se ne andranno."
Dell'Amore? E che potrei mai dirgli?
Ma il gatto non vuole aggiungere altro.
"Basta che tu parli loro dell'Amore. E' semplice."
Penso a Gipi, quando ne LMVDM fa un discorso simile. Ma non c'era nessun gatto. C'era un orso che diceva sempre "cazzo". E non gli stavano rubando pure le sedie da sotto il culo. Che dovrei fare, io?
Cerco di attirare l'attenzione, mentre sto ancora pensando a cosa dire, ma non ci riesco molto bene, e solo tre uomini mi ascoltano, mentre io balbetto qualcosa di incongruente sulle ambizioni personali, sulla famiglia e qualche altra banalità del genere.
Poi mi accorgo che un tizio alto, magro, con la bandana, sta spargendo una specie di colla liquida sul tavolo, con un piccolo pennello.
"Eh no,-dico-il tavolo no! L'ha fatto un amico dei miei genitori, almeno quello lo lasciate stare!"
E allora un alro tizio, una gran faccia da schiaffi, che ha tutta l'aria di essere il capo della situazione, mi guarda, con aria quasi di sfida, e ordina: "Portate via il tavolo."
E allora io mi incazzo.
La banda, per qualche inspiegabile motivo, ha riempito casa mia di mac, ciascuno si è portato il suo, e non posso voltarmi senza vederne almeno uno.
Io non sopporto i mac. Mi dispiace Matteo, mi dispiace Giulia, mi dispiace sostenitori della Apple, ma io e il mac non siamo mai andati d'accordo. Forse perché mi riconosco più in Windows e tutti i suoi accartocciamenti, incastri e inghippi. Evidentemente, tra me e il mac non era destino.
Prendo un mac e lo sbatto per terra. Che sensazione sublime.
Volete portarmi via il tavolo? Benissimo!
Sbam! Altri due mac che volano giù, in un sol colpo.
Chi se ne frega delle conseguenze. Mi sono stancata.
E così, uno dopo l'altro, tutti i mac se ne vanno a terra, e non completamente soddisfatta comincio anche a calpestarli, per essere sicura che siano proprio rotti bene.
E ora fatemi a pezzi. Coraggio.
Incredibile: in modo quasi ordinato gli invasori se ne vanno, e per di più in silenzio. Ho riconquistato la casa. Alla faccia di quello stupido gatto.
La porta si chiude, e rimaniamo solo io e lei.
Non so chi sia, ma so di conoscerla bene.
E' bellissima. Perfetta. Non può essere vera. Non può essere mia.
Faccio qualche passo verso di lei. Mi bacia. Facciamo l'amore.
Dovrei chiamare il Polly, avevo detto che lo chiamavo, giusto?
Ma chi se ne importa adesso. Va tutto bene. Non ho bisogno d'altro.
E poi mi sveglio. L'immagine sbiadisce, il senso di calore svanisce nel nulla.
E non ho il coraggio di alzarmi da questo letto.

venerdì 22 gennaio 2010

Raccontare una storia

Che sta succedendo adesso veramente non lo so più.
Ho smesso di raccontare. E ne avrei di cose da dire, ancora. Ma mi manca qualcosa. E non è la voglia di raccontare.
Sono giorni di alti e bassi. Questo è sicuro. Le ultime settimane sono state così: si passava da degli alti molto alti a dei bassi che potevano essere più o meno bassi. Poi gli alti hanno cominciato a farsi medi, e i bassi son rimasti come prima. Qualcosa non va. Mi dico che è la sindrome premestruale e vado avanti. Viene lo stesso la sindrome premestruale prendendo la pillola?
Non so dire cosa mi stia capitando, e la cosa mi mette a disagio, tremendamente a disagio. Non so come raccontare la mia storia adesso, non mi sento tranquilla nel farlo, e la mia valvola di sfogo, la scrittura, è chiusa, e mi sento compressa e nervosa. Forse sarebbe l'occasione per parlarne. Non scriverne stando al sicuro dietro uno schermo.
Che ci vuole, in fondo?
Ho imparato a parlare prestissimo.
Prima di tutto, dicevo "a". Me ne stavo distesa nel mio lettino da cucciola di un mese, e dicevo "a". Mi piaceva ascoltarmi mentre lo dicevo. "A".
Poi, è diventato "na". Secondo mia mamma volevo dire "Martina", ma era un po' troppo complicato come secondo tentativo. "Na" era più alla mia portata.
"Na! Nnna! Na! Na!".
Mi piaceva proprio.
A due anni, al nido, anche se non riuscivo a pronunciare il suono "tr"-che sostituivo con una specie di sbuffo che somigliava ad un nitrito di cavallo, e avrei continuato così fino ai sei anni-raccontavo le storie alle margherite. Mi piaceva essere ascoltata. Mi piaceva ascoltarmi.
Sono presto diventata una logorroica. Forse perché sono timida, in realtà. Molto timida. L'ho voluto negare per anni, ma a che serve? Io sono timida. E sì, gli estranei possono farmi paura. Ma questa è un'altra storia.
Ho cominciato molto presto a rendermi conto che le mie storie potevano essere scritte. Così avrebbero raggiunto più persone.
Mi piaceva inventare storie, e anche ascoltarle. Quando andavo alle elementari, mio nonno mi veniva a prendere a scuola, e ogni giorno mi portava un panino al prosciutto e una storia. Tranne il martedì, perché andavo a lezione di pianoforte, e allora mi portava le pizzette. I miei compagni mi invidiavano per questo.
Mi ricordo che attaccava dei post-it in macchina con scritte le parti che non si ricordava bene, e anche qualcuna delle sue battute e osservazioni. In questo non è mai cambiato.
Ho scritto le mie storie per anni. O meglio, ho iniziato a scriverle. C'erano i pirati, e i draghi, e strani eroi con nomi improbabili, lupi mannari e bambine schifosamente intelligenti. Non ho mai finito nessuno dei miei racconti.
Poi, quando avevo dodici anni, le parole si sono sollevate dalla carta, si sono staccate e sono diventate tridimensionali. Il mio braccio destro è diventato una piccola videocamera, e la mia voce una voce narrante. E anche quello che scrivevo si adattava alla mia nuova vocazione. Senza successo.
Girai quattro ore di materiale sui forum studenteschi, ma chi si è mai seduto a montarle?
E dopo due o più video di concerti, due corti e un videoclip dalla dubbia moralità, decisi di appendere la mia Bimba al chiodo e lasciar perdere tutto. Non ne ho nemmeno più parlato, e se qualche volta l'ho fatto non ho potuto trattenere qualche lacrima.
Smisi anche di scrivere. E le parole cominciarono ad annodarsi nella mia bocca. E piano piano dimenticai da dove ero partita. Che stupida! E' talmente ovvio. Dalla "A".

lunedì 18 gennaio 2010

Oggi si parla per bene

Il Linguaggio.
La Frase.
La Parola.
La Comunicazione.
Ci ho investito tutto. Risultato? So scrivere e non so parlare.
I miei pensieri si distendono per scritto e non a voce.
Guardiamo questo spazio: è pieno di parole. Parole disposte in frasi di senso compiuto. Inserite in discorsi di senso compiuto. Che giungono a delle conclusioni. Più o meno.
Potrei anche sembrare una personcina intelligente, leggendo qui. O almeno una che scrive bene. Questo sì.
E non so parlare!
Vocalmente, le mie comunicazioni sono interrotte. C'è un'interferenza.
Suona più o meno così: boh.
Che io sia confusa è abbastanza lampante, ma vorrei essere in grado di comunicare anche senza una tastiera, uno schermo o anche più semplicemente un foglio di carta tra me e il mio interlocutore.
"Cioè, nel senso" non è una frase. "Boh" non è una parola. "Cazzo" non è un intercalare. Semmai una richiesta. Ma questa è una di quelle storie che non si raccontano qui, se non dopo le 24. Cosa che comunque, non è mai avvenuta.
Oggi si parla per bene. Non mi interessa se ci impegherò un minuto o venti per terminare una singola frase. Si parla per bene. Con le parole giuste. Con parole mie.
Basta continuare a respirare.
Chi si ricorda di quando me lo scrivevo sul banco prima dei compiti in classe?

Nota conclusiva.
Utile la chat di facebook per comunicare con chi si dimentica il cellulare in luoghi remoti tipo Bologna. No, davvero. Utile. Soprattutto se ti rispondono. Non sono affatto sarcastica. Veramente.

sabato 9 gennaio 2010

Lettera a M.

Ho iniziato questa lettera già due volte, sul mio blog. Due tentativi che non hanno mai visto la luce. Forse perché non sapevo ancora come parlarti.
Sei incostante. Una sinusoide, mi dici. Forse fa parte della tua attrattiva. O forse, molto più probabilmente, è ciò che mi fa paura.
Mi chiedi se penso di lasciarmi andare con te. Vorrei, ma come si fa?
Una cosa che ho sempre odiato e temuto è la sensazione di trovarmi sull’orlo di un abisso. Ho anche scritto di questa cosa.
Letterariamente, la mia scelta è stata quella di lasciarmi cadere. O meglio, di cadere. Forse spinta.
E’ quello che vorrei fare anche con te-cadere, intendo.
Stare in bilico sul bordo fa paura, crea insicurezze, dubbi.
Ti sei mai tuffato da una scogliera? Gli attimi prima di buttarsi sono terribili.
Ho espresso più volte il desiderio di volare via. Di lasciarmi precipitare, di sentire il vuoto che mi avvolge, sopra di me, sotto di me, intorno a me; che mi sostiene.
Abbandonarmi completamente.
Senza paura.
Un giorno spero di farlo. Senza paracadute.
“Stai tranquilla che ti tengo”. Così hai detto. Sembrano le parole di chi insegna a un bambino ad andare in bicicletta.
Perché pensi non ci sappia andare?
La paura è grande, ma vorrei vedere al di là. Mi servono solo le lenti giuste. E le ali per poter volare.
Tu sei una sinusoide. Mi chiedo fino a che punto farò parte della tua curvatura. O forse la trasformerò in spirale e mi ci farò avvolgere dentro.
Chi lo sa. E’ presto.
Hai detto che mi avresti tenuta. Tienimi. O lasciati precipitare con me. Sarà così male?

Raccontino Noir

Premessa: questo racconto ha più di un mese di età ormai. Non pensavo di pubblicarlo. Ma adesso, penso di poterlo fare. Non fa più paura. Non a me.

Piove.
Il cielo è plumbeo sopra la città, non lascia spazio a spiragli di sole. Che sta tramontando, comunque. Forse è già sceso sotto la linea dell’orizzonte. Non lo so, non saprei dirlo. Non si vede.
Piove.
Pioggia “inzuppavillani”. Le goccioline cadono su ogni superficie, picchiettando, come il rumore, di un pennello sulla tela, nelle mani di qualche impressionista.
Pic, pic, pic, pic, pic…
Aspetto, le mani in tasca.
Stasera aspetto te, baby.
Sento l’umidità penetrare nel mio cappotto, nei vestiti, nei capelli, sotto la pelle perfino. Ho sempre odiato gli ombrelli. Preferisco l’acqua.
Eccola, finalmente.
La vedo uscire dal portone.
Sembra felice, sorride.
E’ ancora sulla soglia, c’è qualcuno dentro.
“Allora ci vediamo domani-dice.
E sorride. Poverina.
Il portone si chiude.
Aspetto ancora un attimo nella semioscurità.
Toc, toc, toc, toc, toc…
I tacchi delle scarpe battono sull’asfalto bagnato. Che pena.
Devo sbrigarmi, prima di perderla.
Ho studiato il percorso per giorni, non posso sbagliare. Non mi aspetto imprevisti o cambi di traiettoria. L’ho osservata fare quella strada centinaia di volte.
Non posso sbagliare.
Toc, toc, toc, toc, toc…
Cammina, cammina, baby.
Ti sto dietro.
Ancora non so come sono arrivata qui, oggi, a questo punto. Un’idea talmente assurda da sembrare inapplicabile. Eppure, eccomi qui, sotto la pioggia inzuppavillani, con una lama nella tasca.
Non sono cose che accadono per caso. Non sono mai cose che accadono per caso. Se ne renderà conto.
Continua a piovere, più forte ora. Le gocce da spilli si sono fatte grosse, pesanti. Anche il rumore è cambiato, è più sordo, mi verrebbe da dire gutturale quasi.
Poc, poc, poc, poc, poc…
Ecco, ci siamo.
Ha imboccato una piccola viuzza riparata, immersa nella semioscurità creata dagli edifici e dal poco che riesce a filtrare attraverso lo spesso strato di nubi color canna di fucile.
Un tuono.
Strano. Non è il tipo di pioggia da tuoni e fulmini. Il suono sembra provenire da molto lontano, avvolto in un rotolo di cotone.
Che tuoni pure. Non sono nemmeno sicura di essermene accorta, mentre la afferro d’un tratto per il bavero della giacca, bagnata. Non ha avuto il tempo di accorgersi di me, che passo dopo passo mi sono avvicinata, sempre di più, sempre di più, e ora la tengo saldamente per la giacca con la mano destra, nel buio, lontano da occhi indiscreti.
E’ un attimo.
La strattono forte verso di me, all’indietro, con un movimento preciso, secco, che non lascia spazio a nessuna reazione.
Un attimo.
L’ho gettata a terra con quel solo ed unico movimento, ed ora è lì, di fronte a me, in ginocchio, occhi negli occhi, mentre ancora con la destra non mollo la presa.
Finalmente posso guardarla in faccia.
Finalmente posso vedere chiaramente cos’è che non mi ha fatto dormire, che non mi ha fatto mangiare, che non mi ha fatto nemmeno respirare per così lungo tempo. Tutto qui?
E’ una ragazza giovane, non molto alta, non molto bella. Anzi, decisamente anonima. Mi verrebbe da dire brutta, quasi. Ma non posso essere oggettiva, lo so.
Anonima. Una qualunque, una di quelle che si vedono tutti i giorni per la strada, così insignificanti da non rimaner minimamente impresse se non per caso.
Una ragazza normale.
“Normale”, gridano i suoi capelli castani, non molto folti.
“Normale”, gridano i suoi vestiti, le sue scarpe, la sua borsa, né di tendenza né alternativi.
“Normale”, gridano i suoi occhi, spalancati, ammutoliti, tremanti.
Gli occhi di chi sta per morire-penso.
Perché è questo che sta accadendo.
Lei sta per morire. Finalmente.
Un avvenimento che non migliorerà niente, non risolverà niente, non cambierà niente in meglio per me, anzi. Sarò la prima persona che andranno a cercare. Lo so, l’ho già calcolato.
Non sarà tutta discesa da qui in avanti. Al contrario.
Non ho deliberatamente mai voluto sapere niente di lei.
Non mi importa chi sia, cosa, faccia, cosa le interessi. Non deve esistere per me. Eppure esiste, e ho dovuto saperlo, ho dovuto pensarci. Sarò costretta a farlo per il resto della mia vita, dopo che lei non ci sarà più. Ma è questo il punto: non ci sarà più.
Qui, in ginocchio nella pioggia, davanti a me, c’è una piccola figura, zuppa e tremante, costretta a puntare il suo sguardo incredulo verso l’alto, dove stanno, immobili, i miei occhi.
Guarda i miei occhi, guardali.
Puttana.
Un ultimo istante per ripensarci.
Non accade niente.
La sinistra scivola nella tasca, tocca il metallo freddo che contiene.
Potrei ancora tornare indietro.
Non accade niente.
La lama affonda nel suo petto una prima volta, mentre gli occhi si spalancano ancora di più, e percepisco qualcosa che si contrae, ma non in me.
Mentre una pozza di sangue comincia a formarsi e a distruggersi , scorrendo via tra i sampietrini, la lama cade e ricade più volte, nello stesso punto, mentre mi assicuro che il suo sguardo sia puntato su di me, su colei per la quale aveva provato pena, che ora è qui che la sta uccidendo.
Colpisco per la quinta volta, l’ultima.
Non so se sia ancora viva.
Gli occhi sono spalancati, fissi, la bocca aperta.
“Per chi provi pena adesso, puttana?”
Non so se ho sussurrato o gridato queste parole, mentre mi chino su di lei, senza lasciarla ancora cadere. Deve guardarmi bene in faccia, anche se non è più qui. Io sono mesi che non ci sono più.
Guardami, guardami ancora…
Aspiro e le sputo negli occhi.
Ora non vedi più. Non vedrai mai più. Non sei più niente.
Mollo la presa.
Cade faccia in giù nel suo sangue, nell’acqua mista allo smog, nello sporco. Nel buio.
Ormai il sole è calato.
Un altro tuono, più distante.
La lama ritorna al sicuro, nella mia tasca.
Vi faccio scorrere le dita sopra, energicamente.
Sento il mio sangue pulsare fuori. Sono viva. Ma non qui.
Non in questo mondo.
E’ finita, è tutto finito ora.
Tutto.
Ora posso riposare.
Mi alzo dalla posizione in cui mi eri accucciata, vicino al corpo non più funzionante.
Ma ne vado, le mani in tasca, lo sguardo basso, tranquillo.
Piove.
Le grosse gocce picchiano su ogni superficie.
Poc, poc, poc, poc, poc…

venerdì 8 gennaio 2010

Estratti dal mio diario da Berlino

17 dicembre 2009, 11:59 p.m.
Fa un gran freddo a Berlino. Si vedono piccoli fiocchi di neve, o forse pezzetti di ghiaccio staccatisi da chissà dove, fluttuare nell'aria. Amo questa città, profondamente.
Alle 9 e 51 di sera ero fuori casa, diretta al Kaiser. Come si può non amare una città in cui i supermercati stanno aperti fino a mezzanotte?
[...]

19 dicembre 2009, 03:45 p.m.
Sembra sempre che la gente si lasci per motivi futili, piccolezze, oppure plusioni impellenti che non dovrebbero sovrastare l'amore.
E allora ci si dà di stronzo, troia, e così via. "Non mi ha mai amato, che schifo, ho solo sprecato il mio tempo..."
Cerchiamo di convincere gli altri o noi stessi?
Certo che si ama. E molto, anche.
Tutti amano veramente, anche chi non ci aspetteremmo mai possa farlo, anche chi ha buttato un rapporto così, senza un vero motivo apparente.
E poi lo guardi, un giorno, magari molto tempo dopo, e ti dice "Io la amavo", con una tale delicatezza, con uno sguardo così vero negli occhi che non puoi dubitare delle sue parole.
[...]
Vedi, la verità è questa, che ci si lascia per un semplice motivo, sempre lo stesso, che viene prima di qualunque cazzata si possa dire, fare o pensare: che quello che c'era non c'è più, che qualcosa si è spento, piano piano, così che non si è avuto nemmeno il tempo per accorgersene, e non si trova il modo di rialimentare la fiamma.
Dio, se fa male.
Basta.

21 dicembre 2009, 04:51 a.m.
Non ho sonno.
Amo questa città.
Amo il freddo, il ghiaccio, la neve, il cielo plumbeo, le mie mani screpolate, spaccate, la pelle secca.
Amo la gente, la parlata, i discorsi, le parole, gli occhi.
Amo essere me stessa, qui, ora. [...]
Amo lavorare, amo le tazze da caffé, le caraffine del latte, la lavastoviglie, il sapone concentrato, amo i tedeschi che ordinano un latte macchiato e poi una bruschetta.
Amo questa mia Berlino.
L'unica cosa che amassi più di te. Non voglio dimenticarlo, non voglio farlo mai più. Amo. Basta.

24 dicembre 2009 (ora sconosciuta perché la batteria del cellulare è morta)
[...]
Sono piccola. Forse sono La Piccola, non lo so, ma non sono grande come vorrei, e le mie esperienze possono paragonarsi ad un granello di sabbia. E' tutto immenso e io piccola. Mi piacerebbe pensare di aver finito di star male, e che le soluzioni che ho trovato possano funzionare, non solo ora, ma sempre. Non è detto neanche che funzionino adesso, ma quella è un'altra storia.
Non sono a posto, ci saranno altre batoste, e io non l'avevo pensato, il che è molto stupido, in effetti.
[...]
Le cose non si fermano mai, com'è che l'ho dimenticato? Il Mondo Convesso è fluido, instabile. Non come i gas nobili. Stupida chimica.
Sono stata da A., e sta di merda. A 35 anni non si è ancora finito di fare cazzate, non si è ancora finito di star male, anzi.
Come mai l'ho dimenticato?
"E' dura essere grandi-mi dice.
E' dura anche essere piccoli, comunque. Non sapere, non aver vissuto abbastanza, non capire il perché di certe regole. Non è sempre facile, e non è sempre divertente. Come star seduta qui adesso, senza sapere né il tempo né il luogo, né cosa fare.
Però la gente va e viene lo stesso, con le proprie valigie, i cappotti, i cappelli, va e viene. E' per questo che sono fatti gli snodi ferroviari. E se andassi a casa?
Cosa diceva Nina? [nota "postuma": si fa riferimento alla Nina de "Il Gabbiano" di Cechov] Che nella vita non è tanto importante la gloria, o la ricchezza, quanto saper soffrire e portare la propria croce? Che c'entra?
Le cose non si fermano mai. Devo smettere di pensare di aver risolto qualcosa, o continuerò a perdere tutto e ritrovarmi punto e a capo. Come con Enrico.
Buffo come questi meccanismi si somiglino sempre. Dal mio piccolo punto di vista non mi sembra che quello che sta passando A. adesso per via della donna che l'ha lasciato, a tre giorni dal suo compleanno e sotto le feste, sia poi così diverso da quello che ho passato io. [...]
Ma che posso sapere, io? Sono piccola. La Piccola.
C'era una striscia di Quino in cui Miguelito diceva: "Come posso essere piccolo? E' tutta la vita che non faccio altro che vivere!". La trovo una frase calzante.
[...]
Eh sì, hai ragione A., è dura essere grandi. Ma è dura anche essere piccoli. E volersi sentire grandi. E provare ad esserlo. E rimanere piccoli. Ai propri occhi. Agli occhi degli altri.
Ma che posso saperne, io?
Basta.

03 gennaio 2010, 02:20 a.m.
Ico, tu mi dicesti di amare una persona vera. Ed ero io. Forse l'hai dimenticato.
Ebbene, io oggi sono quella persona più che mai. Sono vera, sono viva, sono a 360 gradi, e non me ne vergogno più.
Chi mi vivrà ora dovrà vivermi cos', vera. Perché io sono vera.
Ma sono una taccola. Io sono La Taccola. Dò il mio cuore una sola volta, poiché ne ho solo uno.
Ormai il mio cuore è andato, e non mi è stato restituito ancora. Non sono stata svincolata dalle promesse che ho fatto. E io vorrei, vorrei tanto tornare ad amare, di nuovo, come fosse la prima volta, vorrei vivere e farmi vivere, così come sono, vera.
Ma sono una taccola.
Come faccio a infrangere questa promessa, che mi pesa, mi fa male, mi tarpa le ali e di cui per quanto mi sforzi non posso, non riesco a liberarmi?
Io voglio volare ancora. Ma le mie ali? Sono state tagliate le penne.
Ho aspettato. Ho aspettato a lungo che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa, che ci mi aveva proibito di volare tornasse a raccogliermi. Non è accaduto.
Ora le penne cominciano a ricrescere, piccole, tenere, come germogli. Tento un volo sbilenco. Non lasciarmi cadere, tu hai le ali, sorreggimi.
Ma chi mi ridarà il mio cuore?
Non so se lo rivedrò mai più.
Quando potrò volare, volare davvero, ne cercherò uno nuovo, tutto per me, che mi scalderà ancora il petto.
Proverò ancora quel tepore. Qualcuno mi amerà. Ed io? Io sarò capace di amare? Si può amare ancora dopo aver donato il proprio cuore, ed essere rimasti con null'altro che un moncherino sanguinante?
Io so che voglio vivere tutto questo di nuovo, forse anche la sofferenza, se sarà necessarui, Quel che non so è se sarò in grado di farlo.
Io sono La Taccola. Dò il mio cuore una sola volta, poiché ne ho solo uno. Chissà se ti innamorerai di me.

04 gennaio 2010 12:41 p.m.
Ore gli incubi sembrano essere finiti, lasciando spazio a sogni più piacevoli. Chiudere gli occhi non fa più paura. Non molta, comunque.
Adesso posso chiudere i contatti.
In qualche modo, posso dire di avercela fatta. Si va punto e a capo.
Non ho scelto una strada facile, e i miei incubi ne sono prova. Ma adesso che sono passati so di avercela fatta. Posso perfino parlarne.
Quando tornerò a casa lo cancellerò da facebook, e tutto il resto. Non ne ho più bisogno. Che faccia ciò che vuole.
Pubblicherò finalmente il Raccontino Noir sul blog. Parlerò della Cosa-di-cui-non-si-può-parlare, e qualcuno ne avrà paura. Ma non ha importanza. Gli incubi sono finiti. Tutto questo non mi preoccupa più.
Ho una nuova voce che mi parla nell'orecchio, sembra quella di un folletto dispettoso, o un gremlin, come quelli che popolavano i miei racconti quando avevo tredici anni.
["I'd be rather a thertheen than a 13"]
Sto qui, seduta, ancora fuori dal Mondo Convesso, e lo guardo con occhi grandi, ingenui forse. Sono Piccola.
"Be'? Rientriamo?-mi chiede.
Non lo so. Guardo lo spettacolo di maschere e colori davanti a me, giochi di luce, i grandi illusionisti, sogni spezzati, le finzioni, i ruoli che la gente si dà. Forse è ancora presto. Forse mi piace più osservare che fare. O forse, semplicemente, non è questo ciò che voglio. Non lo so. So solo che ho tempo per pensarci, tutto il Tempo del mondo.
Almeno gli incubi sono finiti.
Parlerò della Cosa-di-cui-non-si-può-parlare. Punto.
E a capo.

06 gennaio 2010, 12:30 a.m.
Penultima notte a Berlino. Solita insonnia. Strano rumore raspante di sottofondo. Silenzio di neve fuori.
[...]
Ho chiamato Matteo. Ha una voce così rassicurante, mi piace sentirlo parlare. Anche se ormai l'effetto teraoeutico tranquillizzante è andato, sostituito dall'ansia di rivederlo. Che mi sta succedendo? Che mi è successo?
Mi guardo allo specchio e-incredibile-mi piaccio. Non mi sforzo più per sorridere. Gli occhi sono luminosi, e il viso non è più del solito color neon.
Quando sono qui i miracoli accadono. Come l'ossigeno che si trasforma in oro. [Citazione nerd, chi la può cogliere la colga].
Berlino per me è stata magica ancora una volta. Per questo la amo.
Adesso però ho una gran fretta di lasciarla, perché sento di aver qualcuno a cui tornare, e qualcuno con cui vorrei tornare qua, a fargli vedere questa magia.
[...]
Quello che abbiamo in mano adesso è un grande desiderio, una passione disordinata e cieca, probabilmente tipica della nostra età. E poi?
Poi si starà a vedere. C'è Tempo.
Tutto il Tempo del mondo.

11:15 p.m.
Ultima notte a Berlino.
Ho salitato i colleghi al Malatesta, i pochi che c'erano. In questi giorni c'è calma piatta.
[...]
Ho saltato sulle valigie per chiuderle. La piccola sembra che stia per esplodere. Speriamo la cerniera tenga.
Matteo è riuscito a farsi cambiare il turno, e per le 3 dovrebbe esser fuori. Domani ci vediamo. Sfrush.
Mi sa che ho sbagliato, e che la parola di Gipi era "frush", senza "s". Ma ormai "sfrush" è la mia. Sa più di gattina che fa le fusa. Forse è più adatta a me.
Devo dormire. Domani mi devo alzare presto. Ma non ho sonno. Come al solito.
Chiuderò gli occhi e penserò. Penserò a domani. E poi suonerà la sveglia.