sabato 9 gennaio 2010

Raccontino Noir

Premessa: questo racconto ha più di un mese di età ormai. Non pensavo di pubblicarlo. Ma adesso, penso di poterlo fare. Non fa più paura. Non a me.

Piove.
Il cielo è plumbeo sopra la città, non lascia spazio a spiragli di sole. Che sta tramontando, comunque. Forse è già sceso sotto la linea dell’orizzonte. Non lo so, non saprei dirlo. Non si vede.
Piove.
Pioggia “inzuppavillani”. Le goccioline cadono su ogni superficie, picchiettando, come il rumore, di un pennello sulla tela, nelle mani di qualche impressionista.
Pic, pic, pic, pic, pic…
Aspetto, le mani in tasca.
Stasera aspetto te, baby.
Sento l’umidità penetrare nel mio cappotto, nei vestiti, nei capelli, sotto la pelle perfino. Ho sempre odiato gli ombrelli. Preferisco l’acqua.
Eccola, finalmente.
La vedo uscire dal portone.
Sembra felice, sorride.
E’ ancora sulla soglia, c’è qualcuno dentro.
“Allora ci vediamo domani-dice.
E sorride. Poverina.
Il portone si chiude.
Aspetto ancora un attimo nella semioscurità.
Toc, toc, toc, toc, toc…
I tacchi delle scarpe battono sull’asfalto bagnato. Che pena.
Devo sbrigarmi, prima di perderla.
Ho studiato il percorso per giorni, non posso sbagliare. Non mi aspetto imprevisti o cambi di traiettoria. L’ho osservata fare quella strada centinaia di volte.
Non posso sbagliare.
Toc, toc, toc, toc, toc…
Cammina, cammina, baby.
Ti sto dietro.
Ancora non so come sono arrivata qui, oggi, a questo punto. Un’idea talmente assurda da sembrare inapplicabile. Eppure, eccomi qui, sotto la pioggia inzuppavillani, con una lama nella tasca.
Non sono cose che accadono per caso. Non sono mai cose che accadono per caso. Se ne renderà conto.
Continua a piovere, più forte ora. Le gocce da spilli si sono fatte grosse, pesanti. Anche il rumore è cambiato, è più sordo, mi verrebbe da dire gutturale quasi.
Poc, poc, poc, poc, poc…
Ecco, ci siamo.
Ha imboccato una piccola viuzza riparata, immersa nella semioscurità creata dagli edifici e dal poco che riesce a filtrare attraverso lo spesso strato di nubi color canna di fucile.
Un tuono.
Strano. Non è il tipo di pioggia da tuoni e fulmini. Il suono sembra provenire da molto lontano, avvolto in un rotolo di cotone.
Che tuoni pure. Non sono nemmeno sicura di essermene accorta, mentre la afferro d’un tratto per il bavero della giacca, bagnata. Non ha avuto il tempo di accorgersi di me, che passo dopo passo mi sono avvicinata, sempre di più, sempre di più, e ora la tengo saldamente per la giacca con la mano destra, nel buio, lontano da occhi indiscreti.
E’ un attimo.
La strattono forte verso di me, all’indietro, con un movimento preciso, secco, che non lascia spazio a nessuna reazione.
Un attimo.
L’ho gettata a terra con quel solo ed unico movimento, ed ora è lì, di fronte a me, in ginocchio, occhi negli occhi, mentre ancora con la destra non mollo la presa.
Finalmente posso guardarla in faccia.
Finalmente posso vedere chiaramente cos’è che non mi ha fatto dormire, che non mi ha fatto mangiare, che non mi ha fatto nemmeno respirare per così lungo tempo. Tutto qui?
E’ una ragazza giovane, non molto alta, non molto bella. Anzi, decisamente anonima. Mi verrebbe da dire brutta, quasi. Ma non posso essere oggettiva, lo so.
Anonima. Una qualunque, una di quelle che si vedono tutti i giorni per la strada, così insignificanti da non rimaner minimamente impresse se non per caso.
Una ragazza normale.
“Normale”, gridano i suoi capelli castani, non molto folti.
“Normale”, gridano i suoi vestiti, le sue scarpe, la sua borsa, né di tendenza né alternativi.
“Normale”, gridano i suoi occhi, spalancati, ammutoliti, tremanti.
Gli occhi di chi sta per morire-penso.
Perché è questo che sta accadendo.
Lei sta per morire. Finalmente.
Un avvenimento che non migliorerà niente, non risolverà niente, non cambierà niente in meglio per me, anzi. Sarò la prima persona che andranno a cercare. Lo so, l’ho già calcolato.
Non sarà tutta discesa da qui in avanti. Al contrario.
Non ho deliberatamente mai voluto sapere niente di lei.
Non mi importa chi sia, cosa, faccia, cosa le interessi. Non deve esistere per me. Eppure esiste, e ho dovuto saperlo, ho dovuto pensarci. Sarò costretta a farlo per il resto della mia vita, dopo che lei non ci sarà più. Ma è questo il punto: non ci sarà più.
Qui, in ginocchio nella pioggia, davanti a me, c’è una piccola figura, zuppa e tremante, costretta a puntare il suo sguardo incredulo verso l’alto, dove stanno, immobili, i miei occhi.
Guarda i miei occhi, guardali.
Puttana.
Un ultimo istante per ripensarci.
Non accade niente.
La sinistra scivola nella tasca, tocca il metallo freddo che contiene.
Potrei ancora tornare indietro.
Non accade niente.
La lama affonda nel suo petto una prima volta, mentre gli occhi si spalancano ancora di più, e percepisco qualcosa che si contrae, ma non in me.
Mentre una pozza di sangue comincia a formarsi e a distruggersi , scorrendo via tra i sampietrini, la lama cade e ricade più volte, nello stesso punto, mentre mi assicuro che il suo sguardo sia puntato su di me, su colei per la quale aveva provato pena, che ora è qui che la sta uccidendo.
Colpisco per la quinta volta, l’ultima.
Non so se sia ancora viva.
Gli occhi sono spalancati, fissi, la bocca aperta.
“Per chi provi pena adesso, puttana?”
Non so se ho sussurrato o gridato queste parole, mentre mi chino su di lei, senza lasciarla ancora cadere. Deve guardarmi bene in faccia, anche se non è più qui. Io sono mesi che non ci sono più.
Guardami, guardami ancora…
Aspiro e le sputo negli occhi.
Ora non vedi più. Non vedrai mai più. Non sei più niente.
Mollo la presa.
Cade faccia in giù nel suo sangue, nell’acqua mista allo smog, nello sporco. Nel buio.
Ormai il sole è calato.
Un altro tuono, più distante.
La lama ritorna al sicuro, nella mia tasca.
Vi faccio scorrere le dita sopra, energicamente.
Sento il mio sangue pulsare fuori. Sono viva. Ma non qui.
Non in questo mondo.
E’ finita, è tutto finito ora.
Tutto.
Ora posso riposare.
Mi alzo dalla posizione in cui mi eri accucciata, vicino al corpo non più funzionante.
Ma ne vado, le mani in tasca, lo sguardo basso, tranquillo.
Piove.
Le grosse gocce picchiano su ogni superficie.
Poc, poc, poc, poc, poc…

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