martedì 26 ottobre 2010

Cattivissimo Me

Forse che Milton ci vuol dire che far del male è molto più divertente che far del bene?
-Donald Sutherland in Animal House

Credo che si siano sprecati fiumi di parole su cosa è buono e cosa è cattivo. I Super Migliori Amici lottavano a favore del bene contro il male-ad eccezione di Buddha, che non crede esista il male. E da ciò si può tirar fuori almeno qualche secolo di filosofia. Ma non è questo il punto.

Cattivissimo Me.
Gru, il cattivissimo, così cattivissimo da scoppiare i palloncini in faccia ai bambini, vuole rubare la Luna. Un atto cattivissimo. Ma per portare avanti il suo cattivissimo piano ha bisogno del raggio restringente, che però gli viene sottratto da Vector-protagonista mancato de La rivincita dei Nerd e The Big Bang Theory. Pertanto, per riuscire nella sua cattivissima impresa, il cattivissimo Gru è costretto a passare a ben più cattivissime armi. Così, cattivissimamente, adotta tre orfanelle per mettere dei biscobot nelle scatole di biscotti che venderanno a Vector, e gli sottrae così, sempre cattivissimamente, il raggio restringente.

Chi riesce ad indovinare tutto il resto del film?
E' facile: Gru, dopo i cinque minuti d'obbligo di cattivissima cattiveria ostentata, si innamora perdutamente delle bambine, con unicorni, saggi di danza e tutto il resto.
La trama, i personaggi, sono di una prevedibilità indescrivibile, a partire dai piccoli assistenti di Gru (pressoché identici agli alieni giocattolo di Toy Story) e a chiudere con la piccola Agnes (ricalcata da una Bu di Monsters&Co appena appena invecchiata).
E se vostro figlio col passare del tempo comincerà ad incrociare gli occhi fino a diventare strabico, forse non avreste dovuto portarlo a vedere tutti quei cartoni in 3D.

NOTA: non sono robot, ma ho menzionato gli unicorni. La catena di pensieri va avanti!

mercoledì 20 ottobre 2010

Collegamento di idee

Tanto per cominciare, mi hanno spiegato la differenza tra un remo e una pagaia.
Non che fosse questo il punto.

Ho fatto 39160 punti a Robot Unicorn Attack, e così ho scoperto che attack si scrive col -ck.
Attack era pure una canzone dei System of a Down, in Hypnotize. Traccia 1.
Il bassista dei SOAD aveva il pizzetto lunghissimo, una treccina, e un cognome che, con tutta la buona volontà del mondo, non sono mai riuscita ad imparare.
Anche Ciccio aveva provato a farsi crescere un pizzetto così, ma gli spuntava a ciuffi, a corna, e si spezzava.
Ad acluni uomini la barba cresce robusta, ad altri no.
E poi c'è il tipo che solleva 60 kg con la barba. Fa un record del mondo e soldi a palate.
Come il tipo che ingoia le palline da biliardo. Ma è un fake.
Invece il tipo senza gambe è vero.
Ce n'era uno così pure in Freaks, che non mi ricordo mai se ha il -ck oppure no, come attack.

La prossima volta magari vedo quanti passaggi ci vogliono per tornare agli unicorni robot.

martedì 5 ottobre 2010

Notevolmente più grosso, da guardare fissamente negli occhi

Comunichiamo continuamente. Tutti. Anche quando non ce ne rendiamo conto, così come non sempre ci rendiamo conto di cosa comunichiamo.
Il linguaggio non si ferma alla parola, ma è molto di più. Ci sono i gesti e tutto ciò che riguarda ciò che chiamiamo il linguaggio del corpo, e molto altro ancora. E' un campo che può apparire sconfinato, e affascinante.
Ma la parola è senz'altro ciò con cui tutti abbiamo più confidenza. Se si parla di linguaggio, si parla di parole. Di parlare. Tutti facciamo subito questo collegamento. Chi poi conosce l'argomento in maniera più approfondita può farne anche altri, ma questo vale certamente per tutti.
C'è una cosa però alla quale di solito non si pensa, ed è ciò su cui sto riflettendo ultimamente. Esiste un momento in cui sentiamo una parola per la prima volta. Il più delle volte è impossibile da ricordare, eppure deve essere avvenuto per forza. Una parola che prima per noi non esisteva.
Penso a vocaboli che non vengono usati comunemente, per un motivo o per un altro, dei quali però conosco il significato. E magari non li uso mai. Non ricordo nemmeno se li ho mai usati. Quando li ho sentiti per la prima volta? Come ho fatto a impararli?
Mi diverte cercare di ricordarlo. E, a volte, ci riesco.

Pagaia.
Non ho mai avuto a che fare in vita mia con una pagaia. Ne sono più che certa.
Ho sentito per la prima volta questo termine in un film, tanti anni fa. Forse non andavo neanche alle elementari.
Sono gli anni '90. E' il periodo in cui vado pazza per Marilyn Monroe. Per le bionde tettone in generale.
Mia madre torna a casa con una videocassetta. E' una di quelle che danno coi giornali o con le riviste, cose di cui ancora non so nulla, che per me servono sono ad ottenere videocassette a prezzi irrisori.
E' un film vecchio. C'è Marilyn. Si intitola Quando la moglie è in vacanza.
Non sono ancora abbastanza maliziosa per cogliere le sfumature della trama. Però capisco questo: la moglie del protagonista (Tom Ewell) è partita con le vacanze col figlio, il quale però ha dimenticato a casa qualcosa. Una pagaia.
Non riesco a capire perché non la chiamino remo, parola con cui invece ho familiarità. Non so che differenza ci sia. Ma collego il nome a quell'oggetto. Non lo sentirò più usare per almeno dieci anni.

E' curioso. E' divertente. Se mi sforzo, posso farlo con molti altri vocaboli, e anche con svariate espressioni, che mi rendo conto di non aver mai usato prima di trovarmi in un determinato luogo o di avere a che fare con una determinata persona.
Dietro ogni parola che usiamo potrebbe esserci una storia che abbiamo dimenticato, e che forse varrebbe la pena di ricordare. Sarà perché mi piace avere una storia per tutto. E per citare una frase celebre, di cui però non riesco a ritrovare le parole esatte, quando un uomo (o una donna) non ha più una storia da raccontare, allora è una persona morta.

mercoledì 8 settembre 2010

La storia del soldato e della principessa

 http://www.youtube.com/watch?v=BHvs2K2yVGU

Non saprei dirlo meglio di così. Mi dispiace, oggi lascio parlare un altro.

sabato 28 agosto 2010

Veramente volevo dire un'altra cosa...

...è che sono troppo impegnata a scollarmi lo smalto di troppo dalle dita. E volevo cambiare argomento.
Che il romanticismo, la disney e Sex & The City ci hanno rovinato mi pare di averlo chiarito a sufficienza. Se a qualcuno interessassero ulteriori filippiche d'approfondimento, io sono ancora qui.
Però, ecco, non è che tutto il male venga sempre per nuocere. Ormai il cervello ce lo siamo venduto su eBay, lo abbiamo rivisto su YouTube e taggato su Facebook. Gli illuministi avevano lavorato tanto bene, a vederci si rivolterebbero nella tomba.
Non è che gli uccellini vadano a sbattere contro i vetri perché sono stupidi. E' che risulta molto difficile capire cos'è un vetro con un cervello di quelle dimensioni. E liscio, per di più.
Ma stavo cercando di dire un'altra cosa. Un messaggio superficialmente positivo. Le meraviglie della nostra epoca. La tecnologia. Internet. Vibratori a forma di rossetto che puoi portare comodamente in borsa. Potevamo forse farne a meno?
Ci servono distrazioni. Intrattenimento. Che sia perché siamo gusci vuoti o perché là fuori ci fa talmente schifo che vogliamo rifiutarci di rendercene conto non fa molta differenza.
Abbiamo sempre un'opinione su tutto, e anche un sacco di buone intenzioni, è per questo che le scriviamo sui blog. In realtà è solo un modo come un altro per ingannare il tempo nell'attesa che ci si asciughi lo smalto.
Criticarci è estremamente divertente, in fin dei conti. Non si sa a cosa possa servire di preciso, ma ci riesce bene, e magari a qualcuno interessa anche.
Ciò che dovrebbe veramente preoccupare forse è che non diamo più attenzione alle cose giuste. Non è sempre facile capire quali siano, e probabilmente in molti casi si tratta di pura soggettività. Se vogliamo essere proprio fiscali, il giusto non esiste nemmeno. Chi ha familiarità con il buddhismo sa a cosa alludo.
Fatto sta che siamo come distratti.
Un esempio.
Barceloneta. Spiaggia. Mare.
Nudisti. Quelli appartenenti alla categoria di persone che non si vorrebbero vedere nude. Peccato. Ma non amo stare a scandalizzarmi per certe cose.
Noi siamo in 6. Ventenni fiorentine in vacanza, con le ciabatte, gli occhiali da sole enormi e tutto il resto.
Passiamo davanti alle docce. C'è un uomo nudo che si sta lavando, sulla cinquantina, con la pancia rotonda e, come notiamo tutte subito, un piccolo pene sotto. Vabbe' che l'acqua è fredda...
Quello di cui nessuna di noi si accorge al primo sguardo è che all'uomo manca una gamba. Dal ginocchio in giù.
In sostanza, credo che la morale della favola sia che è più importante avere un pisello grosso che entrambe le gambe.
Ma forse non è questo che volevo dire...

lunedì 26 luglio 2010

L'anello di brillanti

Strano come le parole non vengano sempre. E' difficile, per me, parlare quando va tutto bene. Che mai dovrei dire? Uh, sì, sono una principessa e questa è la mia fiaba perfetta, orsù, invidiami, invidiami! In effetti non suona neanche male. Lo farò. Ma la prossima volta.
Ancora una volta scendo in campo per parlar male, senza troppa voglia di infiocchettare le cose. Per quanto adori sbattere in faccia alla gente tutto ciò che mi va bene, preferisco ancora farlo dal vivo, e gustarmi tutte le sfumature di colore e di espressione dei visi. Che goduria. Che stronza sadica.
Forse proprio atteggiamenti del genere stanno alla radice del mio problema. Di quello di cui mi voglio lamentare adesso. Un giorno, probabilmente, saranno le mie lamentele a pagarmi l'affitto, quindi, miei sfortunati lettori, adattatevi e puppate.
Mi diverte essere cinica. Da pazzi. Ho recitato questo ruolo, che io ricordi, dai 12 anni in su. E mi ci sono crogiolata voluttuosamete (sempre che il crogiolarsi possa essere voluttuoso).
Mi diverte fare la femminista vecchio stampo, anche. Modello Valerie Solanas. Cazzutissima. Estremista. Certi uomini hanno delle reazioni fantastiche. Si potrebbe girare un film solo con le loro espressioni facciali. Sarebbe un capolavoro. Campione d'incassi al botteghino.
Amo spregiudicatamente giocare a fare Dio. Non a caso adoro The Sims, e mi chiamo-perché il resto del mondo a ragione si rifiuta di farlo- Dr. Manhattan.
Questo è il personaggio che mi porto dietro. Questo è ciò con cui mi diverto a mettere in fuga il superfluo. E' un gioco. Politically incorrect. Just for fun.
C'è chi da bambino giocava ai pompieri, ai poliziotti, alle principesse o my little pony. Io giocavo alla saccente-so-tutto-io. Mi riusciva decisamente meglio, e forse mi schermava di più.
Ora non siamo più ai giardinetti, con le Barbie e le macchinine, ma le nostre corazze, i nostri personaggi, ce li portiamo ancora dietro. La differenza è adesso si dovrebbe saper vedere anche cosa c'è sotto, o almeno intuirlo. Alla fine, non siamo poi così diversi.
Quando avevo tre anni-forse più, forse meno-adoravo La Sirenetta. Ignoravo volutamente il fatto che nella versione originale della fiaba lei venisse tramutata in schiuma del mare, e nella mia personalissima versione del racconto salvava il principe dall'annegamento. Un tocco di emancipazione femminile qua e là. Ma era pur sempre una principessa. Anzi, una cimpetessa, come dicevo allora. E aveva il suo cimpete.
Non so quanto io sia cambiata da quando facevo questo gioco. La base è sempre la stessa. La corazza però si è fatta più spessa. In fondo, in certi momenti mi ha fatto comodo così.
Ciò che mi dà fastidio, invece, ciò che mi fa incazzare, è questo: che molte persone si fermino lì, alla buccia. Persone che mi conoscono da poco, persone che mi conoscono da anni. Si fermano al personaggio.
Ma il personaggio, mio gentile pubblico, non è piatto. Achille mi annoiava a morte. Ettore, già più variegato, mi catturava.
E' facile voler vedere solo una faccia delle cose, farne uno stereotipo, magari.
Io non dovrei saper cucinare.
Io non dovrei piangere mai.
Io non dovrei essere femminile.
Io non dovrei portare scarpe col tacco.
Io non dovrei andare a ballare.
Io non dovrei fare l'amore, dovrei scopare.
Queste, comunque, sono poche solo poche frasi, semplici, buttate lì. Un'idea vaga di come può essere o no una persona. Ma le persone non sono un nome, né un personaggio, né una definizione. Se possiamo ruotare a 360°, un motivo c'è. E una cosa non la saprai mai per certo finché non l'avrai chiesta, vista, vissuta.
E comunque, devo smetterla di guardare Sex & The City.

domenica 4 luglio 2010

Nothing Is Everything

I rondinini sono volati via. Almeno così sembra. Erano diventati belli grossi, le penne, tutte ordinate, hanno sostituito le piume. L'ora di imparare a volare arriva.
Le zanzare invece prolificano, e cominciano l'annuale assalto ai miei piedi.
Un anno fa, esattamente in questo stesso giorno, mi liberavo dall'ansia degli orali per gli esami di stato. Riuscirono a convincermi ad indossare una camicetta per l'evento-tutt'ora non so come.
Sudata dalla testa ai piedi, torturando i poveri fogli di carta della mia tesina con le mani, mentre cercavo di non bestemmiare inavvertitamente ad alta voce per il panico, pensavo. Mancava qualcosa. Qualcosa non era come me lo sarei aspettato, come me lo figuravo da mesi e mesi, fino a poco tempo prima, e non volevo voltarmi per vederlo. C'era un vuoto. Un spazio vuoto. Una sedia vuota. Chi avrebbe dovuto occuparla probabilmente dormiva, non saprei dire dove.
Strano come quel vuoto sembrasse risucchiare tutto il mondo. Eppure, non ha cambiato niente, in realtà. Superai gli esami con il mio dignitosissimo 86, vantando la soddisfazione di 15/15 al tema, con complimenti da parte della prof-e, per dirla proprio tutta, non avrei saputo che scrivere se non ci fosse stato quello spazio vuoto. Ma in quel momento mi era insopportabile.
Circa sei mesi fa, ho scritto qualche frase sui vantaggi del nulla. Del vuoto, appunto. Ma lo intendevo in un senso del tutto diverso. Un foglio bianco è ancora tutto da scrivere. Il tempo a venire deve ancora essere riempito. Infinite possibilità. Possibilità che sì, possibilità che non. Il salto della fede. Non che abbia mai amato particolarmente Kierkegaard.
Oggi saprei come riempire lo spazio su quella sedia. Se si tratti di un terreno più fertile, adesso non posso saperlo. Possibilità che sì, possibilità che non.
Ti ho dato un foglio bianco, tu me ne hai restituiti tre. Piano piano il nulla diventa qualcosa, l'inchiostro si spande e prende forma. A volte cola e macchia il copriletto. Può anche essere divertente.

giovedì 1 luglio 2010

Whatever Works

...ecco perchè non lo dirò mai abbastanza: qualunque amore riusciate a dare e ad avere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurareq qualunque temporanea elargizione di grazia... Basta che Funzioni...!


Forse funziona davvero. Chissà. Non si capisce mai se ci si è provato veramente finché non si è lì, a raccogliere i cocci. Perché i cocci, alla fine, vanno raccolti.
Non mi piace pensare a me stessa come ad una pessimista. E la vecchia frase ["Non sono pessimista! Sono realista!"] ormai si è sentita tante di quelle volte da esser diventata peggio di un cliché.
Siamo seri: il bicchiere non è né mezzo pieno, né mezzo vuoto. Il dilemma, dal mio punto di vista, è se sia mezzo pieno e mezzo vuoto, o pieno per metà d'acqua e per metà d'aria. E comunque, mi rimane sempre il bicchiere. Non mi sembra un punto di vista così negativo.
E' vero, preferisco di gran lunga pensare che le cose andranno per il peggio, nella miaggior parte dei casi. Ma è un meccanismo difensivo. Se va tutto male, mi rimane la consolazione di dire che almeno avevo ragione, e se invece va bene... be', è una piacevolissima sorpresa!
La verità è che questo è meglio di una delusione. E in più, soddisfa spesso il mio ego saccente.
Il giochetto non funziona però con tutte quelle piccole cose che danno un pizzico di gioia solo a guardarle. Che si tratti o no di specchietti per le allodole, un sorriso ce lo riescono sempre a strappare, e, se si ha fortuna, più di uno.
Dopodiché sta a noi: ci si può aggrappare a quel po' di felicità, coltivarla, o cercare sempre qualcosa di diverso, di solito nei posti sbagliati.
I grandi ideali, per loro natura, non funzionano granché. Il romanticismo primo tra tutti. E, per come la vedo io, è molto più probabile essere schiacciati da un pianoforte che cade da un quarto piano piuttosto che realizzare l'ideale romantico. Non ci vedo niente di male.
Ma una persona può comunque donarci qualcosa. A guardarsi intorno si trova sempre un pezzettino di mondo che valga la pena di essere guardato. Sennò perché darsi la pena di vivere?
Il mio pezzetto di mondo, per adesso, è un nido di rondini, con tre piccoli affacciati, che girano il capino in qua e là, che si puliscono le piume e spalancano i becchi gialli alla vista della mamma o del papà. Chissà se ce la faranno ad arrivare in Africa. In questo caso, voglio sperare di sì, con o senza bicchiere.

domenica 30 maggio 2010

Non piangere, Zucchero. Non c'è uomo che lo meriti

Fino a non molti anni fa, sebbene ormai sembrino passati decenni, d'estate, verso metà luglio, venivo impacchettata e mandata in colonia in Trentino.
Quando si frequentano certi luoghi, in cui la vita si svolge in comunità, si iniziano a creare delle consuetudini, degli scambi di battute, che sono sempre gli stessi, e che fanno sempre ridere. Tra questi, ne ricordo uno in particolare, tratto dal mitico A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder. Io facevo Tony Curtis, lei Marilyn Monroe.
Giovedì scorso, tra un pensiero e l'altro, scavando un po' nella memoria e cercando di atteggiarmi da icona, come mi piace tanto fare, ho postato su facebook una delle battute del film: "Non piangere, Zucchero. Non c'è uomo che lo meriti". Saranno trascorsi circa un paio di minuti, prima che mi vedessi rispondere così da un nome a me familiare: "Anche lei portava gli occhiali...".
Ecco un piccolo vantaggio dei social network. Una frase, un ricordo, un sorriso. E' stato piacevole, dopo tanto tempo.
D'altronde, A qualcuno piace caldo è già da sé un film ricco di aneddoti, oltre quelli che ha poi inspirato nelle nostre vite. Marilyn era incinta, e appiccicarono la sua faccia su altri corpi formosi per le locandine. I corpi, tra l'altro, erano di due delle Dame del ritmo di Susy, che ricordano ridendo l'esperienza, dopo anni, negli speciali del DVD.
Il costumista, mentre prendeva le misure ad una Marilyn Monroe con indosso nient'altro che una camicia, dichiarò che Tony Curtis aveva un culo più bello del suo. Cosa che, temo, non ci sarà mai dato modo di verificare, vista la scarsità di inquadrature del posteriore di Tony Curtis e l'abbondanza per quel che riguarda quello di Marilyn.
Uno di quei film per cui si potrebbero passare ore e ore a citare e raccontare. Ma se si vuole dirne una per tutte... be', nessuno è perfetto.

Casablanca

Ilsa, le cose da eroe non mi piacciono. Ma tu sai bene che i problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia. Un giorno capirai... Buona fortuna bambina!

1942. Humphrey Bogart è, come avrebbe detto Woody Allen trent'anni dopo, bassino e piuttosto bruttino. Ma è sufficientemente basso e brutto per poter aver successo per conto suo. Ingrid Bergman è splendida così, in bianco e nero. Che poi nero nero non è mai, ma sempre grigio. Sottigliezze.
Riescono a regalare al cinema una delle scene che ne avrebbero scritto la storia, probabilmente una tra le più citate in assoluto, tanto da divenire uno dei punti salienti in uno dei pilastri della mia cultura cinematografica, ovviamente alleniano-non poteva essere altrimenti.
Play it again, Sam, in italiano Provaci ancora, Sam, scritto e interpretato da Woody Allen ma diretto da Herbert Ross, ormai fa parte della mia biografia, e così sono stata costretta a prendere seriamente anche Casablanca.
Non mi è mai piaciuto Bogart. Per nulla. E Casablanca non è mai stato il mio genere di film. Eppure, quando ne ho l'occasione, lo riguardo. Come quella volta che lo davano in tv, non c'era nessuno in casa e io mi misi a lavarmi i capelli nel lavandino in cucina.
Credo di averlo sempre trovato piuttosto irreale. Nessuno lascerebbe mai andare Ingrid Bergman così, con un salame qualunque. Ma se lo fa Bogart, al pubblico si inumidiscono gli occhi, e le signore tirano fuori i fazzoletti dalle tasche.
Perché un gesto così deliberatamente drammatico? Perché trasformarsi da burbero che cura solo i propri interessi nell'eroe della situazione?
Bogart ce la fa, e diventa un classico. Più di sessant'anni dopo fanno fare qualcosa del genere anche a Batman, anche se con l'ago della bilancia spostato nell'altro senso, e la cosa appare originale. Ma non credo cambi veramente qualcosa.
Ci piacciono gli eroi travestiti da cattivi ragazzi, ci piacciono proprio, e, sebbene la formula non sia cambiata dagli anni '40, riescono ancora ad infinocchiarci. E ci piace.

giovedì 27 maggio 2010

Frankie & Johnny

Una classica canzone popolare americana, di cui non esiste versione definitiva. Elvis la cantava, interpretando la parte di Johnny, in un celebre musical del 1966. La storia, che pare essere tratta da un fatto di cronaca, anch'esso diffuso in più varianti, cambia a seconda di chi la interpreta. La versione che piace a me però è questa: lui la tradisce, lei gli spara. Una, due, tre volte.
He was her man,
but he was doing her wrong.
Nel 1987, la canzone ispira uno spettacolo di Terrence McNally, Frankie and Johnny in the Clair de Lune, che nel 1991 diviene un film con Al Pacino e Michelle Pfeiffer, intitolato più semplicemente Frankie & Johnny. In Italia viene presentato nelle sale come Paura d'amare, poiché probabilmente in pochi avrebbero colto il legame con la canzone, che non appartiene alla nostra tradizione musicale, e quindi è praticamente sconosciuta.
Il film, comunque sia, arriva in Italia, e diviene uno dei preferiti di mia madre, e, come da regola, mi viene passata la staffetta.
Dopo aver scoperto eMule, l'ho rivisto spesso. Anzi, in questo periodo costantemente. Ed è curioso vedere come cambino le mie reazioni a seconda dell'umore, specie alla frase di chiusura, "per sempre e malgrado tutto". Nella vita reale non si può credere ad una cosa del genere, anche se viene quasi da sperarci. E poi, Al Pacino ha un fascino irresistibile.
Adesso sono fermamente convinta che se si ha un VHS funzionante non serva avere un uomo, che le scarpe d'oro siano causa di eiaculazione precoce, che una patata scolpita, tinta di rosso e legata ad un gambo di sedano sia una rosa coltivata in cucina, che ci si possa prendere una cantonata per qualcuno che usi espressioni come "Con licenza parlando". Però continuo a chiedermi cosa mai Johnny abbia detto a Frankie al mercato dei fiori.

domenica 23 maggio 2010

Caduta di stile

Interessante vedere come alcune cose diano un totale, per quanto superficiale, senso di entusiasmo. Mi piace fare la superficiale, a volte. E' immediatamente gratificante, almeno finché riesci a non pensare ad altro. Non che possa funzionare alle lunghe, ma per la durata di un'uscita del sabato sera è più che sufficiente.
Per esempio, mi piacciono i miei leggins rosa fluo. Mi piace anche sgambettare in giro con quelli addosso, e dare l'impressione di avere avuto una rissa con un evidenziatore.
Quando vai in giro un'intera serata con qualcosa del genere addosso puoi anche evitare di farti troppe masturbazioni mentali, almeno finché non ti cambi.
La scorsa notte è stata una di quelle. E devo dire che ne avevo proprio voglia. Anche se non dura mai abbastanza.
Si è conclusa con una corsa verso la macchina, per evitare di prendere freddo, al suono di "ma perché dobbiamo sempre farci riconoscere?", e con una foto ad un sacco della spazzatura. Questo sacco della spazzatura:

Quando vedi un sacco della spazzatura e non puoi fare a meno di esclamare che ha una faccia, vuol dire che la situazione richiede una foto.
Penso mi servirebbero più momenti del genere. Di entusiasmo, insomma. Per le cose più nobili o più stupide, ma comunque entusiasmo.
Non dovrei aver necessariamente bisogno di leggins fosforescenti o di sacchi della spazzatura con la faccia per essere contenta. Dovrebbe essere una sensazione un po' più estesa, che riguardi più aspetti della mia quotidianità, e non solo l'eccezionale.
Si potrebbe dire, semplicemente, che è una questione di atteggiamento. E probabilmente, almeno in parte, è vero. Ma si potrebbero dire anche molte altre cose.
Si potrebbe parlare, per esempio, delle piccole cose che ci danno sicurezza. Dei gesti, delle parole, delle attenzioni. Di quello che si dà e di quello che si riceve. Dei propri spazi, degli spazi degli altri. Degli sforzi che vale la pena o no di fare.
Mi sento oltremodo retorica a fare certi discorsi. Retorica e ripetitiva. E polemica. E lagnosa. E, già che ci siamo, anche un po' rompicoglioni. Cose che mi scoccia profondamente essere.
Mi sento profondamente in colpa nei confronti di questo spazio, che temo stia precipitando a causa di questa mia clamorosa caduta di stile. E mi sento anche un po' in colpa nei miei confronti.
No, decisamente, non è qui che volevo arrivare.

venerdì 21 maggio 2010

...e l'altalena va giù

C'è un punto, uno solo, molto chiaro, a cui si riduce tutto questo. E ne abbiamo parlato, eccome se ne abbiamo parlato! Potresti immaginar perfettamente quello che sto per dire. Ma non lo farai.
Infantile trasformarlo in uno sfogo pubblico su un blog, sì, certo, infantile. Non c'è altro commento da fare, no? Ma vedi, c'è altro in realtà. C'è che forse ho bisogno di farlo questo sfogo, e ne ho bisogno adesso, in questo preciso momento, per evitare che quello che ho appena finito di mangiare mi si rivolti nello stomaco e si trasformi nell'insonnia di questa notte. E comunque, probabilmente non ti accorgerai neanche dell'esistenza di queste parole.
Non sono arrivata a questo punto per ritrovarmi da sola davanti a uno schermo, non una, ma centinaia di volte. Non ho cercato così faticosamente qualcuno per poi stare da sola. Specialmente adesso.
E in effetti, sai, forse così sola non sono. Perché ci sono persone, non qui presenti fisicamente né in questo né in molti altri momenti, proprio come te, che riescono comunque a tenermi compagnia, anche per pochi minuti. Che, qualunque sia il giorno della settimana, se hanno ne hanno voglia prendono il telefono in mano e fanno il mio numero, per il piacere di sentire una voce amica all'altro capo del filo. Per fare un sorriso dopo una giornata inequivocabilmente di merda, e cercare di scacciare per cinque fottuti minuti i brutti pensieri dalla testa.
Oggi voglio vivere senza rendermi conto.
C'è veramente una striscia di Quino per ogni cosa.
E, alla fine dei conti, stasera io sono qui. Sento tutto il peso del mio corpo, qui. E tutto il rumore dentro la mia testa. Qui. E sai, non ho proprio modo di mandarlo via in questo momento. Non posso non rendermi conto.
Questo spazio, questo stupido spazio nero su internet, a cui si può facilmente non fare caso, accidentalmente finisce col raccontare una storia, che può essere seguita da un osservatore esterno, mentre si svolge. E, sempre accidentalmente, questa storia parla di me. E' la mia. Io stessa l'ho scritta. E no, non ho fatto tutta questa strada per arrivare qui. Nemmeno volevo passarci di qui, non so veramente cosa io stia facendo. Qui.
E la cosa che mi lascia amaro in bocca più di ogni altra, è che so che non sono in grado di alzarmi ed andarmene, che tra sei mesi sarò ancora a questo punto, e starò ancora cercando di farmelo piacere. Ma credimi, non sarà così. Ma che vuoi farci, è un capitolo che ho già scritto una volta, aspetto solo che arrivi il finale. Te l'ho detto, non ho energia, non ne ho davvero. Aspetto che mi si stacchi la spina.
E tutte le cose, tutti i pensieri, tutte le migliaia e migliaia di parole che mi si stanno riversando nella mente, secondo dopo secondo, non ce la faccio, non posso spiegarteli. Condividere non è ciò che si fa con un link su facebook. E non è così immediato.
Per rispondere nuovamente alla tua domanda, sì, di ubriacature di parole si può vivere anche un anno, e si può credere che siano veramente ciò che conta. Ma questa sensazione ormai la conosco. Non mi sazia.
E ora, di' pure che sono infantile. Io qui ho finito.

Scritto dall'altalena che va su e giù

E' venerdì. Di nuovo.
Domani non mi devo alzare, domani non avrò nessun impegno particolare prima di sera. Posso dormire fino a mezzogiorno, all'una, alle due, alle tre anche.
Che ci faccio allora stasera, qui, da sola, davanti ad un pc-di nuovo?
Curioso come certe cose fatichino a cambiare. Curioso il significato di certe parole, anche. Curioso come ciò che a volte si dice possa significare tutto, o, più probabilmente niente.
Potrei non trovarmi qui, ora. Potrei, appunto. Ma ho scelto di fare di oggi un giorno esattamente come gli altri, per guardare ancora il mio umore che fa su e giù, senza alcun motivo apparente.
Comincio a trovare ironica questa situazione. Davvero. Il fatto è che ha perso completamente quella parvenza di senso che le era rimasta.
Diffido totalmente della mia capacità di prendere vere decisioni su tutto ciò che possa coinvolgere il sentimento. Sentimento.
Interessante. E' completamente dominato dal mio umore, e il mio umore è completamente dominato dai miei livelli ormonali. In pratica, quindi, i miei sentimenti sono dosati in una confezione di pillole. 28, per l'esattezza.
Ora potrei disegnare un grafico delle mie reazioni emotive, calcolarle, trasporre il tutto in uno schema, così da non far stupire più nessuno, da non essere più un rompicapo. Sempre che il capo si rompa.
Io continuerei comunque alla stessa maniera, non cambierebbe l'andare dei miei pensieri, né le sensazioni. Continuerei su quest'altalena, e le cose non si chiarirebbero, né ci sarebbero vere soluzioni.
Questo è ciò che mi è sempre maggiormente dispiaciuto del mio funzionare a cicli. A un uomo non potrai mai dire che è la sindrome premestruale.

mercoledì 19 maggio 2010

Scatto

Buio.
No, non esattamente.
Le serrande sono quasi del tutto chiuse, trapassa appena un filo di luce dai forellini. Luce gialla, mi pare. O più probabilmente arancione. Meglio arancione, mi piace di più. Io odio il giallo.
Non sento poi così caldo. Ma almeno non sto tremando.
M. suda, invece. Come quando dormiamo insieme. Io divento calda, e lui suda.
Suda, e mi rimane appiccicato alla pelle. E poi inizia a filtrare all'interno.
E' un odore strano. E' quello che rimane togliendo il dolciastro delle bombolette che si spruzza addosso, l'alone delle magliette sotto le ascelle e i calzini che camminano da soli. Fondamentalmente, è puro ormone.
C'è silenzio ora. O almeno, mi ricorderò di questo momento come di un silenzio. Uno di quelli buoni.
Mi fermo. L'occhio si posa per un istante sullo schermo spento del computer. No, non sullo schermo. Sull'immagine riflessa sullo schermo spento del computer.
Una sagoma quasi del tutto in ombra, schiena diritta, capelli raccolti, treccine e dreads che scendono sulle spalle. Nient'altro che pelle su tutto il corpo.
Va bene, un momento di puro narcisismo è concesso a tutti, anche solo per autocompiacimento.
"Aspetta,-dico-prova a spostare la mano... no, non così, aspetta, aspetta... ecco, perfetto! Verrebbe una foto perfetta! Non c'è mai un fotografo quando ne hai veramente bisogno!"
E forse, è anche meglio così.

martedì 11 maggio 2010

Odissea universitaria

Come alcuni di voi sapranno, capita di frequente che gli studenti del primo anno decidano di cambiare facoltà.
In realtà, gli unici a non sapere niente a riguardo sembrano essere i genitori, ma probabilmente solo per difficoltà pratiche.
Ad ogni modo, il fatto resta: non tutti hanno le idee chiare fin da subito. Basti pensare alla facoltà di architettura: quest'anno circa 1200 studenti, se le mie fonti sono esatte, hanno fatto il test d'ammissione, con soli 300 posti disponibili. Di questi 300, sempre in base alle mie fonti, circa due terzi si sono ritirati al primo semestre. Il che è tutto dire.
Questa breve introduzione è per dire, semplicemente, che io sono una dei tanti dalle idee confuse. Così da marzo ho smesso di frequentare l'università.
La mia intenzione non è quella di abbandonare definitivamente gli studi, ma, dal momento che non è possibile effettuare trasferimenti ora come ora, mi ritrovo in una fase di stallo.
Va bene, confesso che me ne son stata un po' con le mani in mano, e ho buttato via diverse giornate nella nullafacenza, ma probabilmente la maggior parte delle persone al mio posto avrebbero fatto lo stesso. In fin dei conti, il non fare niente piace un po' a tutti. Tuttavia, per quanto io abbia apprezzato il mio periodo di grattamento di pancia, sono ben consapevole che il tempo perduto vada recuperato in qualche maniera. Ed è qui che la mia storia ha inizio.
L'idea di partenza era informarsi sul come mettersi avanti per l'anno prossimo, in modo da partire bene, risparmiando sul tempo e, perché no, facendo contenta anche la mamma. Oltretutto c'era la questione della seconda rata di tasse, di ben 1400 euro, che volevo trovare il sistema per non pagare.
Ho mandato una prima email spiegando la situazione, e la risposta è stata di presentarmi personalmente in orario di segreteria per discutere la questione.
Ho effettuato una migrazione verso la mia segreteria, ovvero in viale Morgagni. Da casa mia raggiungere Morgagni non è questione di cinque minuti: dal momento che la segreteria apriva alle 3 e chiudeva alle 4 e mezzo, e che volevo arrivare un po' prima per prendere un numero decente, sono dovuta partire da casa mia col treno all'una, scendere a Santa Maria Novella, prendere un autobus ed arrivare lì alle 2 e venti. Con già più di dieci persone in fila prima di me, per consegnare delle tesi di biologia.
Giunto il mio turno, sono stata liquidata in cinque minuti: per non pagare le tasse devi effettuare la rinuncia agli studi, ergo gli esami che hai fatto saranno annullati e non potrai fare esami liberi nel frattempo, e tu vuoi farli, non è vero? Altrimenti i tuoi soldi andranno sprecati.
Morale: non potevo effettuare alcun trasferimento, dovevo sborsare 1400 euro, chiedere alla mia futura facoltà se mi avrebbero concesso la grazia di riconoscermi gli esami liberi e poi tornare in segreteria e vedere cosa mi avrebbero detto.
A questo punto è cominciata la seconda fase del mio piano: mandare email su email per scoprire se e cosa potevo effettivamente fare. Intanto i 1400 euro venivano pagati.
Le risposte alle mie email erano di una stupidità sconcertante. Alla domanda, posta tre volte e in tre forme sempre più elementari, "E' possibile fare esami liberi mentre aspetto per poter effettuare il trasferimento?" è stato risposto, ben tre volte e in tre forme sempre più seccate, "Non può dare esami presso questa facoltà dal momento che non vi è iscritta". Il che non aveva molto a che fare con la mia domanda.
Alla fine, ho deciso di informarmi sugli esami liberi a prescindere dal loro futuro riconoscimento. In fondo, imparare qualcosa non mi avrebbe fatto male, e almeno i soldi non sarebbero stati buttati del tutto nel water.
Così, ho mandato l'ennesima email alla segreteria, chiedendo informazioni a riguardo.
La risposta, o almeno la sua parte più rilevante, merita di essere copiata e incollata qui pari pari:
A questo punto le conviene fare la rinuncia agli studi, compilando un modulo in Segreteria con una marca da bollo e riconsegnando il libretto universitario e poi quando aprono le iscrizioni fare l'immatricolazione ad un'altra Facoltà.
Ovvero: ormai hai pagato, pazienza, fai la rinuncia agli studi.
Sul sito dell'università non sono riuscita a trovare uno straccio di informazione.
Posso dire che mi sento lievemente presa per il culo?

venerdì 23 aprile 2010

A proposito...

Ci hanno fatto credere in degli standard troppo alti. E non è una cosa che riguarda esclusivamente la nostra generazione: è sempre stato così, anche se con mezzi differenti.
Oggi noi abbiamo la televisione, il cinema e i romanzi rosa-e non solo. Prima c'erano le fiabe, le leggende, il movimento bohémien, l'impressionismo, il romanticismo, i poemi epici, lo stilnovismo. Tutto per raccontare-alla fine-una storia. Per vie dirette o traverse, si tratta comunque di questo.
Ci sono molti modi per dire una cosa. La versione primordiale è più o meno questa: lei se ne sta in attesa di essere salvata (in stato comatoso in una bara di vetro o su un letto di rose, nella torre di un castello, in una casa a pulire il focolare...) e lui arriva all'ultimo secondo con fare spavaldo e, dopo averle dato un casto bacio in fronte, se la porta via. E vissero felici e contenti.
Né gli uomini né le donne ci fanno troppo una bella figura in questa maniera. E poi, perché la bella principessa deve sempre essere salvata? Dove sta scritto che voglia sposarsi con un salame di principe azzurro, che tra l'altro, come ci dimostrano i cartoni della Dinsey, ha sempre una gran faccia di culo? E perché il principe dovrebbe salvare una che nemmeno conosce? Perché lei ha infilato la fettina in una scarpetta di cristallo, pure scomoda? No, non mi piace.
Ma capisco che queste sono puntualizzazioni da ventenne inacidita, e magari anche con la sindrome premestruale. Si tratta pur sempre di fiabe.
Gli stilnovisti hanno indorato la pillola ancora un poco, trasformandoci in donne angelo, pure e perfette, che scaturiscono luce propria. Donna come tramite tra l'uomo e Dio. E versi su versi in risposta ad uno sguardo scambiato con una donna già sposata a un altro, ma l'amore del dolce stilnovo è di natura diversa. Tant'è vero che Paolo e Francesca, i quali hanno osato consumare il proprio amore, sono stati piazzati direttamente all'Inferno.
Non si può gettare fango su un pezzo così importante della poesia italiana, e non lo farò. Ma forse credere in certe cose non aiuta a tenere i piedi per terra.
Si potrebbe andare avanti a lungo con questo elenco, e soprattutto passare intere giornate a parlare dei romantici, e quello in cui si sono-purtroppo-evoluti. Ma finirebbe per trasformare il tutto in una lista della spesa, per di più cinica.
Ciò a cui volevo arrivare è questo: crediamo che l'amore sia questo. Che la vita sia questo. Che ci sia, in qualche modo, una trama, per ognuno di noi, che siamo, come forse direbbe il grande Ariosto, un filo che disegna l'intreccio di un enorme arazzo, che va visto da una certa distanza per poter essere capito. Che ci sia un percorso preciso da seguire, chiaro, così come ci viene raccontato, e, come in una reazione chimica, bilanciando le parti si otterrà ciò che vogliamo così come lo vogliamo. Come se bastasse dire ti amo per essere amati, studiare per essere intelligenti, parlare per essere oratori. Non è esattamente così che funziona.
Quando ero molto piccola, pensavo, con assoluta certezza, che la vita fosse un film. Non come un film, ma un film. Non sarei morta. Semplicemente, arrivati al lieto fine, come vedevo nei cartoni animati, il film sarebbe finito. Tutto qui.
E sarebbe arrivato, prima o poi, il lieto fine. Succede sempre. E prima o poi sarebbe finita la parte introduttiva, in cui non succede niente, e sarebbe cominciata la storia vera.
Ci sarebbe stato un principe, probabilmente. Forse un castello, e sicuramente un cavallo bianco. [La mia risaputa avversione per i cavalli la sviluppai più avanti].
Poi cominciai a capire che non era come credevo, e per un motivo molto semplice: la storia era troppo noiosa. Insomma, a chi poteva interessare un film del genere, dove non succedeva mai niente?
Non era un film, e io dovevo morire. Forse senza il mio lieto fine. O con una conclusione alla Barry Lyndon. No. Non mi è mai andato giù.
Oggi penso a tutto questo, col naso gelato, mentre guardo fuori dalla mia finestra, oltre la tenda verde, e ascolto la pioggia. Aspetto ancora che succeda qualcosa, ma non lo spero più. Posso semplicemente fare la mia parte, non starmene con le mani in mano, e cercare di ottenere comunque qualcosa, anche senza una fiaba. E' questo quello che si può fare. Dare il proprio 100%. Anche se non garantisce nulla.
Se una cosa sembra troppo bella per essere vera, guardati intorno, perché probabilmente non lo è.
Io faccio quello che devo, e vorrei sperare di migliorarmi, un po' per volta, e di capire sempre qualcosa in più.
Eppure, non riesco a smettere di credere che qualcosa stia per arrivare. Ma forse si tratta solo del 2012.

giovedì 25 marzo 2010

L'arringa della difesa

Il mio cane è nervoso. E' primavera, sbocciano i fiori, gli uccellini cinguettano. Le cagnette vanno in calore. E Pooka deve rimanere chiuso in casa a guaire tutto il tempo. Così, oggi ho deciso di fargli fare una passeggiata in più, e l'ho portato un po' per i campi.
Pooka è un cane particolare. E' molto scorbutico, e non gli piace troppo essere toccato. O guardato, anche. Specialmente da chi non è di famiglia. Di solito non riscuote successo, anzi, è un cane decisamente impopolare, additato come aggressivo e feroce. Abbaia a tutti, e fa dei salti incredibili quando qualcuno passa davanti al cancello, si piazza in mezzo al corridoio di casa con l'osso e ringhia a chiunque si avvicini. Ma basta ignorarlo, ed è tutto a posto. Il problema è che nessuno lo fa.
Ritornando a casa, abbiamo incontrato la Lilla. La Lilla è una nostra ex-vicina di casa, l'incarnazione perfetta della vecchia pettegola di paese, che non perde occasione per parlare dei parenti morti o malati, ma che riesce, a modo suo a risultare simpatica.
Come l'ho incontrata, prima che potessi rendermene conto, stava già cercando di accarezzare il cane. Non me l'aspettavo minimamente, perché lo conosce da quando è nato, e dovrebbe sapere bene ormai che non lo gradisce. Comunque, fatto sta che s'è beccata un bel morso sul braccio.
Cercando di riemergere dalla fossa che mi ero scavata lì per lì per la vergogna, l'ho fatta entrare in casa e l'ho fatta disinfettare. Credo di sudato ogni liquido del mio corpo in quei pochi minuti, mentre la Lilla non perdeva l'occasione per aggiornarmi su chi fosse andato recentemente all'ospedale.
Fortunatamente, ha mantenuto il buon umore nonostante tutto, anche se posso ben immaginare che questo diventerà uno dei suoi racconti preferiti.
Ho messo Pooka in punizione in un angolo, e ho cercato di tranquillizzarmi un po'.
Certo, avere un cane con un brutto carattere è un problema. Ma anche le persone spesso hanno un brutto carattere. Ma almeno possono parlarne.
Non sappiamo come mai Pooka sia così diffidente, e non riusciamo a capire cosa sia esattamente a dargli fastidio. Ma se una persona è scorbutica, nessuno va a tamburellarle la testa; perché a un cane sì?
Pooka fa di tutto, quando ci sono estranei, per essere lasciato in pace: si spalma bene a terra col suo osso e cerca di mimetizzarsi con la tappezzeria. Se, malauguratamente, dovesse essere notato lo stesso, allora ringhia per allontanare il perturbatore. Semplicemente, vorrebbe essere invisibile.
E' un cane; non dirà mai: "Voglio stare per conto mio". Non può. Ma può cercare di farlo capire.
Non posso giustificarlo per quello che ha fatto oggi, e il mio compito consiste solo nel prendere precauzioni affinché questo non si ripeta. Ma non voglio limitarmi a dire: "Il mio cane morde, non toccatelo". Non si può ridurre tutto a questo.
E' vero, è un cane, non una persona. Ma non tutti i cani sono uguali, e nemmeno sono dei peluche. Non stanno lì per essere toccati e spupazzati. E se lui non vuole essere toccato, allora non va toccato. Non è difficile da capire.
A me spetta il compito di trovare una soluzione al problema, e lo farò. Ma smettete di voler per forza fare i simpatici con i cani che non conoscete.

domenica 21 marzo 2010

Lo Gnomo

Oggi vorrei raccontare una storia.
Chi ha avuto la sfortuna di viaggiare assieme a me sa bene che c'è sempre il momento della storia, della novellina della buona notte. E' inevitabile: io sono una logorroica narratrice, e alle mie storie non c'è scampo.

Forse qualcuno dei miei lettori più fedeli ricorderà queste parole. Le usavo per aprire uno dei miei pezzi il 6 novembre 2009, quando volli raccontare, con parole mie, una classica fiaba, L'Intrepido Soldatino di Piombo. Una di quelle storie che ai bambini non si dovrebbero raccontare. A me faceva sempre morire di crepacuore.
Ma oggi non sono qui per raccontare una storia d'amore tra un soldatino con una gamba sola e una piccola ballerina di carta. Oggi voglio spostare l'attenzione su un altro importantissimo personaggio: lo Gnomo.
Per chi di voi non lo ricordasse, lo Gnomo era innamorato della Ballerina di Carta, e fu proprio lui con i suoi poteri magici a trascinare il Soldatino nelle sue avventure, e infine a causarne la morte. Ma soprattutto, lo Gnomo, uccidendo il Soldatino, fece in realtà in modo che anche la Ballerina, la sua amata, cadesse tra le fiamme. Così, distrusse il suo stesso sogno.
Ora, mi pare chiaro che lo Gnomo non volesse che la sua Ballerina bruciasse. Lui, a modo suo, la amava. Ma era uno gnomo. E gli gnomi, come ci raccontano le fiabe, sono malvagi. E quindi, il suo amore per la Ballerina non era un amore cieco, ma orbo.
E' diffusa, anche se a livello di inconsapevolezza, l'idea che per fare il bene della persona amata si debba farle del male. E' un modo completamente egoistico di vivere l'amore, che di per sé lo è già. Ma questo è anche veramente dannoso. E per entrambe le parti.
Lo Gnomo non vedeva la Ballerina per ciò che era, la vedeva solo come sua. Cioè solo come ciò che voleva che fosse. Ma, anche nelle fiabe, la realtà è molto più complicata di ciò che si vorrebbe. E la Ballerina non era di nessuno.
Quando si è innamorati, "mio" è una parola che si dice molto di frequente. Ma non è esatta. Ci si può abbandonare a qualcuno, ma ognuno di noi è prima di tutto di se stesso. Una coppia è comunque composta da due individui. Il vero amore dovrebbe essere in grado di comprendere questo.
Lo Gnomo quindi amava solo e soltanto per sé. Era il solo amore che conosceva. Lui voleva la Ballerina, la voleva e basta, non avrebbe neanche saputo che farsene una volta ottenuta, non sarebbe stato in grado di farla danzare, di farla sorridere come faceva di solito, l'avrebbe solo tenuta per sé, come in gabbia. Ma non avrebbe saputo fare diversamente.
Per questo motivo non seppe farsi amare da lei, e per questo motivo, invece di tentare di conquistare il suo cuore, cercò semplicemente di eliminare la concorrenza. Se lui non poteva averla, allora nessun'altro avrebbe potuto.
Ma la Ballerina aveva già fatto la sua scelta. Una scelta che lo Gnomo fece fondere nel fuoco.
Ma se lo Gnomo non avesse fatto gettare il Soldatino nella stufa, lo sportello di questa non sarebbe stato aperto. E se non fosse stato aperto, la folata di vento che fece cadere la Ballerina non ce l'avrebbe cacciata dentro. Lo Gnomo questo non lo poteva neanche immaginare. Lui voleva solo la Ballerina. E non c'era altro.
Niente logica, niente pensieri, e nemmeno sentimenti. Solo desiderio di possesso.
Non si sa cosa abbia fatto lo Gnomo in seguito, se abbia sofferto o meno. Ai lettori interessano solo i buoni.
Ma di una cosa sono quasi sicura: lo Gnomo non era cattivo. Non capiva. E questo, probabilmente, è il peggiore dei mali.

venerdì 19 marzo 2010

Crescere

Voglio diventare grande. Sono stata piccola troppo a lungo, e adesso non mi va più.
Crescere significherà anche smettere di fare i capricci, ma voglio concedermi quest'ultimo proprio al fine di maturare.
Non voglio perdere altro Tempo. Il Tempo è tutto quello che ho, contiene tutto ciò che mi interessa. Ed è comunque troppo poco.
Forse bisognerebbe cominciare dalla morte, come diceva Woody Allen, e vivere una vita alla Benjamin Button, ma chissà se sarebbe meglio. Io non voglio perdere Tempo.
Le cose cambiano, anche la routine. Si incontrano persone, si fanno progetti, si capovolge tutto e si ricomincia. Si impara il valore di avere accanto qualcuno, mentre la gente entra ed esce dalle nostre vite, come dai vagoni dell'U-bahn, a Berlino. Tornerò là, e stavolta spero non da sola. Ma chissà quando.
Il nostro Tempo è fatto di scelte, di possibilità, e di soprattutto cose da imparare. Io sto imparando cosa voglio.
Il mondo di tutti noi è sempre più proiettato verso il web, la condivisione si potrebbe dire, condivisione che si trasforma in esposizione, che si trasforma in esibizionismo. Apro facebook e so i fatti di tutti, anche di chi conosco appena, anche cose che non vorrei sapere. E sembra tutto inutile, superficiale. Infantile.
Non sono più così insicura, non ho bisogno di sbattere le mie gioie, grandi o piccole che siano, in faccia agli altri, in una vetrina, che vorrei usare solo per svagarmi e ridere, di me stessa e anche un po' degli altri. Ho scelto di ritagliare solo una piccola finestra sul mio mondo, qui, in questo spazio, a cui chiunque potrebbe accedere, ma che solo pochi vanno a cercare. Un filtro sottile, da cui traspaiono la mia vita e le mie scelte.
Tante cose stanno mutando. Mi guardo, e mi scopro sempre nuova, sempre diversa. E, a dir la verità, mi piace. Rimangono solo le mie paure dietro lo specchio. Perché ho paura. Ne ho sempre avuta, un po' di tutto, un po' per tutto, e non ho mai capito perché. Ma ho sempre fatto ciò che dovevo a prescindere da esse. Lamentandomi, piangendo a volte, ma sempre arrivando in fondo.
Lo so che piango spesso, e che faccio i capricci. Ma è qualcosa che a volte sfugge al di fuori di me, oltre la mia volontà e le mie possibilità di controllo. Non mi piace fare i capricci. Ma mi piace piangere.
Me ne sono sempre vergognata, in realtà. E non amo che mi si veda quando lo faccio. A volte, al cinema, non riesco a controllare le lacrime per tutto il film, e nascondo la faccia col cappotto, con la sciarpa, sperando che la persona seduta accanto a me non mi veda. Appena le luci si accendono, scappo in bagno, respiro profondamente, ed esco con un sorriso. Ed è come se tutti sapessero. Anche le vecchiette mezze sorde.
Quello che conta per me adesso però è sapere che tutto questo, tutta la mia paura non può fermarmi, che posso andare al di là, e vedere che oltre la cortina di fumo ci sono solo io, ancora e ancora, che mi rinnovo sempre, mi trasformo, imparo, cresco. E rimango me stessa.

domenica 7 marzo 2010

Piccola immagine del mio sabato sera

Firenze, sabato 6 marzo 2010.
Appuntamento alle nove e mezzo in Piazza della Libertà.
Usciamo di casa con calma, tanto sappiamo benissimo che prima delle dieci La Martinsky non apparirà all'orizzonte.
E infatti è così. Ci ritroviamo in quattro, con un freddo cane, senza sapere che fare. Tipico.
Ma La Marti ha un grande programma: c'è una specie di locale nelle vicinanze, dove stasera dovrebbero suonare dei suoi amici di Vaglia. Andare e sentire tre o quattro pezzi non costa nulla, no?
Ci incamminiamo verso il posto, e quasi già lo scorgiamo in lontananza. A questo punto, e solo a questo punto, La Marti ci ferma. "C'è una cosa che non vi ho detto, e che forse dovevo dirvi prima... Mi han detto che sto locale è un pochino di destra". La concezione di "un pochino" della Marti ci è stata chiara solo quando abbiamo visto le bandiere di Azione Giovani. OVUNQUE.
E' giusto dire anche quanto sia stato difficile poi riuscire a trascinare via La Marti da lì, mentre non è giusto dire alcuna parola sulla qualità della musica, perché, come ben si sa, non si spara sulla croce rossa.
A questo punto, vorrei soltanto sapere come va a finire Ponyo sulla scogliera.

mercoledì 3 marzo 2010

A bocca chiusa non ha mai preso nulla nessuno

La ragione è questa, che tale era la nostra antica natura, e che noi eravamo interi: ed è dunque la tendenza e la corsa verso la totalità che ha nome amore.
Aristofane, Platone, Simposio

Sento il battito del suo cuore sotto l'orecchio. Non capisco bene per quale motivo mi piaccia tanto. E' un fatto normalissimo. Eppure mi fa sorridere, e mi verrebbe voglia di gridare: "Ti batte il cuore!". Tutte le volte. Come se fosse un miracolo.
Mi sento così bambina a pensarci.
Se gli batte il cuore significa che è vivo. Se gli batte il cuore e io lo sento significa che esiste.
Sto con l'orecchio appoggiato al suo petto ed ascolto. Il suono è abbastanza regolare, rassicurante, il corpo emana calore. Non c'è nulla di straordinario in tutto questo, ma mi fa star bene.
Il Tempo potrebbe correre velocissimo, oppure essersi fermato. Non si vede da qui. Vedo soltanto una scrivania e una parete bianca. Sento solo il battito di un cuore e due respiri.
Che quiete. Non mi capita mai di starmene così. Il cervello vorrebbe pensare frasi criptate, vorrebbe costruire delle impalcature che descrivano tutto questo. Ma non ce la fa. Non questa volta. La mente corre veloce, più di se stessa, e smantella intere proposizioni sostituendo loro poche parole semplici, che non hanno bisogno di altre che le seguano. Piccole cose che dicono tutto.
All'università ci insegnano a non pensare alla superficie corporea solo come ad un confine, ma come a ciò che sta a contatto con tutto il resto, tutto quello che c'è all'esterno. Tutto quello che è al di fuori di me. Senza il quale nemmeno esisterei. Non siamo in grado nemmeno di pensare a noi stessi separati da qualunque altro elemento costituente il nostro mondo, nel vuoto totale, nell'assenza di materia. E quindi adesso, in questo momento, voglio usare la maggior quantità possibile della mia persona per sentire questo corpo e questo calore, che forse non hanno niente di particolare, niente di speciale, niente di realmente diverso da altri, ma riescono a farmi stare bene. Punto.
Tutto scorre fluido dentro di me adesso, tutto è estremamente chiaro. Il calore si diffonde alla stessa velocità del pensiero, mi invade un po' alla volta, ma intensamente. Sento come delle piccole fiammelle accendersi su di me, prima sulle dita dei piedi, poi a risalire su per le gambe, e poi nel petto, nella gola, nel naso, sulle gengive tra dente e dente. Incredibile quanto sia precisa questa sensazione.
Sto qui distesa e penso tutto questo, muovendo appena un piede, e accarezzando con una mano. Mi domando come faccia tutto ad essere così limpido proprio adesso, come mai a volte mi affiorino nella mente immagini tanto particolari senza nemmeno rendermene conto, come lo spazio tra i denti in fiamme e il pepe nero nel naso. Chissà da dove vengono certe cose. E ovviamente non funzionano a comando.
Adesso lasciamo questa isola di immobilità. Il tempo rallenta, o riprende a scorrere, non lo so. Non si vede da qui.
L'abbraccio di prima si spezza e le mani cominciano a scorrere. La superficie corporea non è un semplice confine. Voglio usarne il più possibile per sentire questo calore.

Nota di postfazione
E' stato particolarmente difficile scrivere questo pezzo. Di solito sono molto più veloce e molto più fluida. Non saprei giudicare quanto sia chiaro o corretto quello che è venuto fuori. Ieri pomeriggio, mentre vivevo la situazione sopra descritta, le parole che avrei voluto usare per raccontarla si susseguivano nella mia mente alla perfezione, estremamente efficaci e precise. Ma ovviamente si è perduto tutto col disperdersi dell'emozione che le aveva partorite. Ricostruire quei pensieri a freddo non mi è risultato affatto semplice come credevo. Lascio che siano altri a dire se ho compiuto la missione o ho fallito.

domenica 28 febbraio 2010

Enjoy the Silence

Enjoy the Silence.
C'è tutta una spvrastruttura sulle parole e i fatti, sul valore del silenzio, sull'invadenza delle cose dette: ma in buona sostanza il concetto è "baciami, stupido!"
-Luca Sofri, Playlist

Ho ripulito la mia scrivania. Anche se non sembra. Ci sono ancora mucchi di oggettini privi di senso e di ragioni di esistere infilati in qua e là: una moneta del 1863, un piccolo ferro da stiro, modello casa delle bambole, sei gomme da cancellare a forma di macchinina, vari piccoli oggetti a forma di fungo, dadi, spille da balia, biglietti da visita, pezzetti di fil di ferro...
Durante i miei scavi ho ritrovato il mio quadernino rosso di quando ero in terza superiore, con la copertina sciupata e una frase in russo scritta sopra. Significa: "State lasciando il settore americano".
Dentro ho ritrovato appuntati molti testi di canzoni, frasi di libri, di film, macchie nere e ditate. E questa frase.
Ricordo che mi era tanto piaciuta. Anche se non aveva probabilmente nulla a che fare con me allora. E forse, neanche adesso.
Io parlo. Io parlo un sacco. E pure di corsa. Senza respirare. E pure a volume alto.
Ci metto tanta energia e tanta foga che mi vengono le vertigini, e sento come se il sangue si concentrasse tutto nella testa. Non posso stare zitta, non posso non dire. Devo alzare il volume, devo dire le cose più velocemente, devo farmi ascoltare. Per forza. Anche se non c'entra nulla. Anche se a nessuno interessa.
Tutta quest'ansia, tutto questo bisogno di raccontare, di comunicare, non so da dove mi vengano. E mi pare non servano a niente. Perché non sto semplicemente zitta?
C'è, c'è sempre un momento in cui non parlo, in cui non dico quello che vorrei. Ed è difficile. Starsene lì, e sentire le parole che quasi mi scappano dalla bocca, indipendentemente dal cervello, indipendentemente dalla mia volontà cosciente. Se ne vogliono andare, vogliono essere dette, e le riprendo sempre per un pelo. Come quando si regge l'anima coi denti.
Qualche volta mi sorprendo mentre sto già prendendo fiato per lasciarle andare. E mi fermo. Il cuore mi schizza in gola, la mandibola si serra. E le labbra tremano. Come le ginocchia. Il battito accellera e così il respiro, la vertigine aumenta, e vedo il baratro sotto i miei piedi. Non posso dire niente adesso.
Un giorno mi scapperà la parola sbagliata. Almeno spero succeda nel momento giusto.
Il valore del silenzio. L'invadenza delle cose dette.
Qualcosa che forse dovrei imparare. Ma il silenzio non è mai vuoto. Ci sono le cose non dette, nel silenzio. E lasciarle lì non le cambia, e non sono nemmeno sicura che le metta in stand-by. Molto più probabilmente, le fa crescere.
E' vero, per me ci sono cose difficili da dire, perché l'emozione arriva prima della parola. Ma non sono capace di tacere nulla. Adesso mi frena solo la paura. La Paura Grande. Mi sta profondamente sulle scatole.
Vorrei avere mani da mettere avanti, ma non servirebbe. E non servirebbe nemmeno sminuire il tutto, fingere che non abbia importanza. Come l'orgasmo.
Posso fermare le parole tra i denti, ancora una, due, tre, mille volte. Ma il Silenzio non cancella niente.

domenica 21 febbraio 2010

Upupa

Molti di noi da bambini probabilmente hanno provato la sensazione di tenere un uccellino in mano. Qualcosa di caldo, piccolo, tenero, immensamente fragile, che si dibatte, mentre con le dita si possono sentire le minuscole ossa e il cuore che batte veloce. Si ha paura di romperlo, stringendo appena un po' troppo forte.
La sensazione di avere una vita nelle proprie mani. La sensazione di avere La Vita nelle proprie mani. Qualcosa che mi sembra molto simile a ciò che deve essere un miracolo.
Da piccole io e le mie amiche avevamo dei canarini. Ogni tanto ci divertivamo a farli svolazzare liberi per la stanza, senza renderci conto di quanto dovesse essere spaventosa quell'esperienza per loro. Andavano a sbattere contro le pareti, il lampadario, e spesso rimanevano incastrati tra muro e letto, o nel termosifone. Quando riuscivamo a riacchiapparli e rimetterli in gabbia il loro cuoricino batteva all'impazzata, le penne erano arruffate e il respiro affannoso. I bambini non si rendono conto di certe cose. Pensano sia tutto un gioco.
Una volta uno dei miei canarini scappò, e non so come lo ritrovammo vicino al fiumiciattolo che passava sotto casa.
Mia madre mi raccontò che anche lei aveva un canarino, che volò fuori dalla finestra e non tornò più. Le si stringe ancora il cuore a pensare alla fine che avrà fatto.
Le rondini facevano lezione di volo fuori dalle nostre finestre all'Isola D'Elba. Mi ricordo ancora perfettamente i loro richiami, e il modo in cui si dondolavano avanti e indietro, quando si appollaiavano tutte in ordine sul filo del telefono.
Non ne ho mai vista nessuna cadere. Eppure deve essere successo. Per questo gli uccelli fanno tanti piccoli: per la certezza che qualcuno sopravviva. Selezione naturale.
Invece un uccellino caduto lo abbiamo incontrato anche noi. Uno storno, che mia madre aveva chiamato Stella jr.
Quando la abbiamo trovata era un esserino piuttosto disgustoso, tutta spennacchiata, con la pancia gonfia e solo due ciuffi di piume ai lati della testa. Sembrava Einstein.
Le davamo da mangiare pan grattato e macinato, e l'acqua con un contagocce. Viveva in un cestino, che riempiva puntualmente di reperti organici piuttosto maleodoranti, e le piaceva stare appollaiata sul bordo, spalancando il becco e strillando per richiamare la mia attenzione.
In una settimana si irrobustì, mise tutte le penne e cominciò a tentare qualche voletto fuori dalla cesta. Così la portammo alla LIPU. Aveva ancora i due ciuffetti da Einstein.
Uno dei miei ricordi più belli però è questo.
Quando avevo undici anni passai le vacanze di Natale coi miei genitori in Senegal, a Dakar. Un giorno, mentre giravamo per la città, mio padre mi fece comprare un uccellino in un mercato. Lo presi in mano, e sentii il suo piccolissimo cuore che pompava veloce il sangue in tutto il suo minuscolo corpo, mentre cercava di agitare le zampette e le alucce nel tentativo di volare via.
Ricordo di averlo tenuto stretto per un attimo, mentre il mio cuore batteva forse più forte del suo, di avergli dato un piccolo bacio sulla testolina arruffata e di aver aperto le mani. E' volato via, in un istante, battendo forte le ali, come qualcosa di veramente libero.
L'altra notte ho sognato un'upupa, che se ne stava dietro una porta a vetri aperta, appollaiata, tranquilla, e mi guardava. Mio padre voleva spararle con un fucile, senza un vero motivo. Io e mia madre volevamo impedirglielo, ma lui continuava a puntarle quel fucile contro, e non si è fermato nemmeno quando ci siamo messe tra lui e l'upupa. Alla fine, ha sparato, e l'ha colpita alla testa. Un foro piccolissimo, per una pallottola di fucile. E io mi sono sentita dilaniare dentro per non essere riuscita a salvarla.

mercoledì 17 febbraio 2010

Rovesciamento

Il tempo scorre, e un mese ci mette pochissimo a passare. Soprattutto febbraio.
E' facile gettare un'occhiata alle mie spalle, e vedere passo dopo passo come sono arrivata ad oggi. Le cose cambiano aspetto viste da questa prospettiva.
Ho smesso di guardare il Mondo Convesso da fuori, ma non sono tornata dentro. Mi piace starmene da sola col mio Tempo, tutto il Tempo che voglio. E vederlo scorrere.
Sono in alto adesso, molto in alto, in un cielo bianco neon. Il Mondo Convesso è sotto di me, distante, un enorme vortice di voci e di volti, di storie. Più storie di quante io ne possa raccontare, e più di quante possano interessarmi.
Lo trovo quasi divertente. Ma non credo di voler tornare là. Le cose sono diverse viste da fuori, nella dimensione del Tempo e della verità.
Però star qui è un non vivere.
Provo forte, chiara e distinta una vertigine, che mi prende alla bocca dello stomaco e mi fa girare la testa, e sento il sangue fluire, e tutto il mio corpo che pulsa, come invaso da un calore torbido. E mi piace.
La sensazione è quella di essere sul punto di cadere, di nuovo. Ma ora è diverso.
I sensi si eccitano, le ginocchia tremano. Il respiro si spezza ancora una volta, ma non soffoco. L'aria non si chiude intorno a me, ma si apre, e qualcosa si irradia tutto intorno. E rimango sospesa su un filo, un brivido.
Sono terrorizzata. Il salto fa paura, tanta paura. Ma non vedo l'ora di tuffarmi.
Potrei anche rompermi l'osso del collo, in effetti. Oppure, e questo sarebbe peggio, potrei spezzarmi braccia e gambe, e la schiena, e rimanere lì come detrito umano semifunzionante. Chissà quanto durerebbe.
Ma non mi va di pensarci.
Il vuoto è qualcosa da riempire, la mia paura è solo frutto dell'ignoranza, la vertigine è la spinta per qualcosa in più.
Potrei stroncarmi le gambe. Ma potrei anche rimanere sospesa, fluttuare, e magari volare, anche.
O molto più probabilmente stroncarmi le gambe.
E' così, non c'è niente da fare. Ma dovrò decidermi prima o poi.
Per adesso mi godo la mia vertigine.
Fa bollire il sangue.

venerdì 12 febbraio 2010

Sei la luce alla fine del tunnel

Eccomi qua.
Mi sono appena detta di andare a dormire, ma so che sto per passare un'altra notte in bianco. Non posso farci niente, non riesco a dormire. Soprattutto adesso. Soprattutto adesso che sono sola.
Sono finalmente riuscita a finire di vedere Human Traffic. Ero proprio curiosa di vedere cosa sarebbe successo.
Ho ascoltato per ore il ronzio delle parole nella mia testa, ho ascoltato la mia voce pronunciare interi discorsi in una situazione immaginaria. In un immaginario dialogo con te.
Mi sono ripromessa di dirti tutte queste cose, esattamente come le ho pensate, uno di questi giorni. Ma già so come andrà a finire. Un po' me ne dimenticherò, un po' avrò paura. L'unica incognita è se mi prenderà di più il riso isterico o il pianto.
E allora ho deciso di scriverle qui, quelle parole, di annotarle, di fermarle da qualche parte per non doverle rinnegare a me stessa dopo.
Sei la luce alla fine del tunnel.
No, so già cosa stai pensando. Non sto dicendo niente di più di quanto io stia effettivamente dicendo. Quindi ora ascolta.
Ti ricordi quando ci siamo conosciuti, ti ricordi come stavo. Forse ti ricordi anche quella mia telefonata in lacrime. Un po' ti dispiaceva per me, un po' ne ridevi. Ma sai quanto io sia stata di merda.
E' come se avessi camminato in un tunnel, molto lungo, freddo e umido. E non fare quella faccia adesso, non c'è nessun doppio senso, dai. Siamo seri un minuto. Fammi finire.
Sono stata al buio, per mesi. Non è bello guardare davanti a sé e non vedere niente. Ma questo te l'ho già raccontato.
E poi, finalmente, ho visto un piccolo bagliore in lontananza. Piccolo piccolo. Ma proprio piccolo, eh. Quello eri tu.
Ora, non farti le strane idee che ti starai già facendo. Con questo non sto dicendo niente, non sto sottointendendo niente, né che mi sono innamorata di te, né altro.
Né sto togliendo niente al bene che ti voglio.
So solo che non voglio un giorno guardare indietro, guardare a questa storia e pensare che ho sbagliato, né voglio che tu lo faccia. Non voglio che debba mai succedere qualcosa per cui si arrivi a pensare di voler cancellare tutto, tutto quello che è stato, e dire che sarebbe stato mille volte meglio non fosse mai successo. Questo non deve succedere a noi.
E poi che vada come vada. Non sto dicendo che durerà in eterno, né che voglio sia così. Ma non voglio che ci sia mai niente per cui tutto questo vada cancellato.
Ti voglio bene.
Sei la luce alla fine del tunnel.

mercoledì 10 febbraio 2010

Immagini di questa notte, del risveglio, di questa giornata

Stanotte non riuscivo a prendere sonno.
Il pensiero di aver dato e superato il mio primo esame, aggiudicandomi un bel "ventisette", scritto a caratteri ordinati sul mio libretto, non mi fa sentire affatto sollevata. La consapevolezza che un altro esame è alle porte è molto più forte del sollievo.
In più, a togliermi il sonno c'erano le condizioni in cui versava la mia testa. Dire che mi faceva male non rende abbastanza l'idea. Avete visto il cartone "Il Gobbo di Notre Dame", trentaquattresimo film d'animazione della Disney? Ecco. Avevo tutte quelle stramaledette campane che mi sbattevano in testa, amplificate al massimo, e ogni singolo gggooooonnnngggg si ripeteva un'infinità di volte. In queste condizioni non si è nemmeno in grado di pensare. Né di vedere. Le immagini si sdoppiano, traballano, saltellano quasi, proprio davanti agli occhi, sotto la punta del naso, tremolanti, con tutta l'aria di esser lì esclusivamente per prenderti per il culo.
Mi sono addormentata solo verso l'alba, e ho fatto sogni strani, biblici, pieni di sangue.
In una prima fase era tutta una finzione, un gioco. Poi si trasformava in realtà, un revival dell'ultima piaga di Egitto, in cui bisognava tingere di sangue la porta di casa per evitare la catastrofe. C'era una donna con me, anche se non la ricordo nitidamente. Era alta, scura e coi capelli corti. Aveva l'aria di saperne un bel po'. Ma non aveva molta voglia di dare spiegazioni.
Ha preso un bambino appena nato e gli a spaccato la testa contro un muro, facendo schizzare il sangue ovunque. Sembrava ketchup.
Ha iniziato a strizzarlo, e dalla spaccatura nel cranio usciva sangue, tanto sangue, con cui segnava le porte e le fronti delle persone. Per salvarle. Ma non saprei dire da cosa.
Ha detto che era necessario. E io non ho fatto domande.
Poi ho cominciato a destarmi dall'incubo.
Piano piano, il cervello ha cominciato a scollegarsi, mentre iniziavo a percepire i raggi del sole che mi battevano sulle palpebre. E ho sentito una voce che mi parlava. La voce di qualcuno inginocchiato accanto al mio letto, che mi sussurrava parole nell'orecchio, parole che ho distinto, chiaramente, e che non riuscivo a credere di aver udito. Ho riconosciuto la voce, subito, ed ho aperto gli occhi, quasi scattando all'indietro. Ma non c'era nessuno. Ovviamente.
So chi è stato a parlarmi, so cosa mi ha detto. E in qualche modo ci credo. O voglio crederci. Vedremo se sto facendo bene.
Mi sono svegliata con un gran mal di testa, e un gran mal di tutto. Mi sentivo scricchiolare. La vita della studentessa, tappata in casa coi libri, che passa dalla scrivania al letto, non fa proprio per me. Mi rende acciaccata, nervosa e cigolante. Ma al momento questo mi tocca.
Ho quasi avuto un colpo quando, andando a prendere i libri per studiare, mi sono accorta di non avere quello che mi serviva. E quindi ho speso l'equivalente di un rene umano in sms e telefonate per vedere se qualcuno poteva salvarmi in extremis procurandomi il libro giusto. Il salvataggio è avvenuto, e ho potuto concentrarmi sui protozoi.
Bestioline odiose, i protozoi. Non mi sono mai piaciuti. Loro e la loro grande variabilità riproduttiva, i loro flagelli e le loro ciglia. E il sesso. Il sesso tra protozoi. Uno dei più grandi sprechi della natura. E la parte peggiore è che vanno in culo a tutti. Al diavolo.
Domani i miei partono. Mi aspettano giorni di isolamento. Soltanto io, il cane e i libri. E un esame da dare. Un altro. E poi? Poi si comincerà a preparare chimica.
Almeno eMule ha ricominciato a funzionare. Però ora che va di nuovo, tutti gli altri programmi sono rallentati in maniera snervante. Era ovvio.
Ma basta lamentarsi.
Non voglio pensare. Non a tutto questo.
Voglio che il mio ricordo di oggi sia la voce che mi ha parlato al risveglio. Sarà banale, ma mi va bene così.
Buongiorno...

venerdì 5 febbraio 2010

Orgasmo

Il titolo serve a vendere il prodotto.
Non si parlerà di vibratori o di grandi scopate qui. Non adesso almeno. Anche se tengo in alta considerazione l'idea di Davide di ricorprire tutte le pareti del Malatesta con immagini pornografiche. Appoggio a pieno il progetto, e se serve aiuto per convincere Piero si può certamente contare su di me. Ma non è questo che volevo dire.
L'Orgasmo è un cocktail, come anche lo Screaming Orgasm e il Sex On The Beach. Anche se forse questo non è il loro giusto ordine di successione. Il che mi ricorda un paio di sbronze, una Giulia molto più barcollante del solito e una Virginia dalle pulsioni insolite.
Trovo che sia una metafora interessante. Non basta un solo ingrediente per raggiungerlo, ma occorre una combinazione, e una combinazione giusta, che lo rende quasi uno stato mentale più che fisico.
E' uno stato di assoluta presenza, arriva quando lo si può accogliere, non c'è se non si è effettivamente là ad aspettarlo.
E' uno stato di assoluta assenza, scaglia la mente al di fuori delle proprie barriere, per un istante luminoso.
Si tende spesso a dimenticarne il senso, il valore, il peso, quasi a darlo per scontato, a farne solo una questione di abilità. Ma non è tutta qui la faccenda.
C'è molto di più dietro, ci può essere molto di più, dovrebbe esserci molto di più.
Giulia, ti ricordi la grande muraglia di sabbia? Credo di aver visto al di là.

martedì 2 febbraio 2010

Fanculo la maglietta di Kierkegaard

Sto perdendo del tempo in cui avrei dovuto studiare, scrivendo qui.
No, non voglio dire che lo sto sprecando, non è vero e non mi piace nemmeno come suona.
Lo sto impiegando diversamente, ecco.
Lo sto impiegando diversamente per qualcosa che ritengo veramente importante.
Non voglio invadere lo spazio di nessuno, e ognuno ha diritto al suo spazio. Non voglio entrare nella casa, o nella testa di qualcuno, piantarmi lì di mia iniziativa e aprire i rubinetti. Ogni cosa a suo tempo. E c'è un tempo per ogni cosa.
Il Tempo.
In effetti, dove sono io c'è solo quello. Nient'altro. Quindi è facile capire quanto sia relativo per me un giorno, una settimana, un mese. Io non ho scadenze, non ho orari, non ho una fine. Ho il Tempo, e devo soltanto riempirlo. E un'idea sul come farlo l'avrei.
Non sono ancora una donna, ma non sono certamente una bambina, che sia facile da credere o no. Ho il cervello necessario per capire le cose, anche se mi manca l'esperienza. Ci sono molte cose che non conosco ancora, ci sono molte cose che devo vedere. E molte idee che devo farmi. Ma non sono così bambina da non poterle affrontare. Alla fine, ho sempre fatto quello che dovevo, in un modo o nell'altro, con o senza paranoia. Forse ho fatto un po' più fatica di altri. Ma l'ho fatto, Cristo. Questo conta.
La mia emotività è in grado di piegarmi la schiena, farmi rimbombare per giorni le parole nella testa, farmi sentire cento volte lo stesso colpo, sempre con la stessa intensità. Non è sempre divertente. Ma sono fatta così, questa è la mia testa, e anche se non ci si abitua mai a queste fucilate si impara a vivere lo stesso, digrignando i denti magari, non riuscendo a dormire la notte, ma comunque alzandosi ogni mattina e facendo quello che bisogna fare. Sta qui il mio piccolo punto di forza: nel fare le mie cose anche quando la testa non c'è più.
Oggi la mia testa non c'è, per esempio. E' vero, in questo momento non sto facendo il mio dovere, ma è importante che io dica queste cose ora e qui. E' maledettamente importante. Non so nemmeno io dire precisamente perché.
La mia testa non c'è. Io non ci sono. Ho qualcosa da risolvere, prima di tutto.
Ho scelto di imboccare una strada che stavo già pensando mi sarebbe piaciuto prendere, e quando mi è stata indicata non ho avuto troppe esitazioni. Non è una strada diritta, non è un lungo rettilineo. E' una strada lunga, e non si sa dove conduca. E questo fa paura. Anzi, fa molta paura. Diciamo le cose come stanno: mi terrorizza. E non solo me.
Ormai sono qui, e non posso tornare indietro, far finta di non aver fatto questo percorso, che nulla sia accaduto e riprendermi quello che avevo fino ad un attimo fa. Non mi basterebbe più. Sono qui per rischiare, e il rischio lo voglio correre sul serio, e non voglio accontentarmi di un tentativo fatto a metà, per la fretta.
Le cose se si fanno van fatte per bene. Davanti ad ogni situazione bisogna prendersi tutto il tempo necessario per valutarla, analizzarla, riscontrarne i problemi e vedere se e come possono essere risolti. Bisogna essere in grado di dare e incassare colpi. Bisogna prendersi la responsabilità di quello che si sta facendo. E non mi pare si tratti di una cosa da bambini.
Se non valesse mai la pena di correre il rischio di fracassarsi contro un muro, o contro un treno, spezzandosi ogni singolo osso, forse sarebbe meglio scomparire nel nulla, come se non si fosse mai nati.
Io il rischio lo voglio correre. Voglio avere il tempo di farmi del male o di essere felice, e voglio impiegare ogni secondo necessario per scoprire quale delle due cose sarà. Dammi solo la possibilità di farlo. Fidati di me. E sii ottimista.

lunedì 1 febbraio 2010

Martina Paranoica

Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi
se tu ti proponessi di recitare te
Emilia Paranoica
CCCP

Stai tranquilla.
Tutto passa.
No, non è vero. Si risolve, ma non è detto che passi.
Va bene allora. Tutto si risolve.
No, no... Non si può risolvere tutto. Non che abbia problemi così grossi da non poterli risolvere. Ma non si può risolvere tutto. Ci sono cose per cui non si può fare niente. Come quel discorso che facevamo sulla pena di morte. Ma non c'entra niente con me, forse, vero?
Va bene, va bene, andiamo avanti.
Tranquilla.
Cerca di non pensare.
No. Impossibile. E' impossibile non pensare. Come quando ti dici: "Adesso non penso a niente". Non è vero. Stai pensando a non pensare. E quindi pensi. Oddio, mi devo calmare. Qual è il problema, in fin dei conti?
Devo abituarmi a guardare le cose dall'esterno, come un film.
Quando osservo mi sembra sempre più semplice. E forse il punto è proprio questo: che è semplice. Perché non può esserlo anche per me?
Che cosa c'è veramente che non va in questa storia, per esempio? Niente. Tutto è al suo giusto posto. Tranne l'orgasmo. Come suona pesante questa parola. Non dovrebbe.
Non dovrebbe perché io dovrei sentirmi tranquilla. E io dovrei sentirmi tranquilla. Ma non è così.
Va tutto bene. Va veramente tutto bene. Non lo dico per convincere me stessa o chiunque altro, ma perché è vero.
Ho la tendenza a complicarmi la vita. Perché devo trovare quello che non va anche quando non c'è?
Ora, per esempio. Mi fermo, e guardo le cose nella giusta prospettiva. Perché stavo piangendo ieri notte? Quale problema reale era così insormontabile da farmi piangere? In tutta franchezza, non lo so nemmeno io.
O meglio: non so cosa ci fosse di così grave.
So quale sia stata la mia preoccupazione. Ma in effetti, non è così grave.
Sono su una strada, né troppo spaziosa né troppo stretta, non trafficata, accogliente, l'illuminazione mi piace, l'aria è alla giusta temperatura. La passeggiata, quindi, è assai gradevole. Ma non ho idea di dove io stia andando.
Perché deve essere un problema?
Non posso godermi questo giretto in santa pace? Sì che posso. Ma non mi riesce.
No, no, no, "non mi riesce" non si dice.
Devo per forza andare da qualche parte? Certo. Sto effettivamente andando da qualche parte, solo non so dove. Ma so dove vorrei arrivare. E questa potrebbe essere la strada adatta. Oppure potrei cadere da un dirupo e morire. No, anzi: potrei cadere da un dirupo e rimanere lì agonizzante. Sì, questo è molto peggio.
Perché penso certe cose? Perché è così divertente fare la grande disillusa? No, non è questo, non lo trovo affatto divertente.
Sono emotiva. E paranoica. Ma non voglio incentrare la descrizione di me stessa su questa seconda caratteristica. Non vorrei che la gente si ricordasse di me per le mie ossessioni su come ritengo vada riposto il sapone.
Sono emotiva. Qualunque cosa mi accada intorno mi colpisce con intensità raddoppiata rispetto al normale. E quindi, quando sembro una bambina non è tanto perché sono infantile, immatura e via di seguito. Sono solo sopraffatta da qualcosa. Devo ancora imparare a gestire certe situazioni.
Non ho sempre potuto [o voluto] mostrare quello che provavo, ed il risultato è che adesso l'emotività mi esce da ogni parte. Come se fossi una fontana.
Sì, forse sono una bambina, ma non voglio farne un nuovo handicap.
Ora voglio concentrarmi.
Stai tranquilla.
Tutto passa.

lunedì 25 gennaio 2010

Sogno

I miei hanno fatto le valigie. Partono per qualche giorno.
Le solite parole di raccomandazione, il cane, la stufa, la spesa, l'aspirapolvere. Tutto come al solito.
La porta si chiude. Rimango da sola.
Vado a letto, mi stendo, mi addormento.
Un rumore accanto alla mia testa mi risveglia nel cuore della notte. Mi giro con fatica, e vedo un gatto, che con le unghie sta sfilacciando una mia vecchia borsa, comprata ormai otto anni fa, in un porto, in Norvegia. Un gatto tigrato. Grigio. Un po' grassottello.
Capisco subito che si tratta di una bestia dotata di un caratteraccio. Nonostante i miei sforzi per impedirglielo, continua ad afferrare tra le zampe e a ridurre in pezzi tutto ciò che trova. Ha un'espressione dura, cattiva, aggressiva, e mi fa paura.
Quando cerco di buttarlo fuori lanciandogli contro un'altro gatto, bianco e marrone, molto più affettuoso-venuto fuori da chissà dove-il distruttore felino si alza in piedi, diventando altissimo e magrissimo, e per di più rosso.
Dall'alto della sua nuova postura, il gatto mi parla: "Sono stato mandato qui dall'Inferno. Ho il compito di aiutarti. Domani farai qualcosa di molto stupido, e morirai. Sono qui per impedire che questo accada."
La storia del gatto infernale non mi convince, vorrei solo che se ne andasse. Però voglio essere sicura di non correre rischi. Gli chiedo di dirmi che fare e di andarsene, ma non vuole rivelarmi niente. Alla fine, lo butto fuori. Saprò cavarmela.
Intanto si è fatto giorno.
Qualcuno suona alla porta. Memore dell'avvertimento del gatto, guardo dalla finestra prima di aprire. Vedo una macchina, e dentro ci sono tre uomini sconosciuti. Capisco subito che non è il caso di aprire. Ma ho paura, e mi sento in trappola. Vado alla finestra dal lato opposto della casa: voglio saltare giù e cercare aiuto. Con me, c'è il mio cane. Non voglio lasciarlo solo. Ma non riesco a convincerlo a saltare-e d'altronde, come potrebbe?
Così compio la mia evasione da sola. Mi accorgo subito però che i tre uomini stanno cercando un modo per entrare in casa. Ho paura che facciano del male al mio cane. Anzi, ne sono certa. Così, torno indietro.
Mi vedono. Non so come comportarmi. Sono in preda al panico. Talmente in preda al panico che apro la porta e li lascio entrare. Che cosa stupida.
Non sono solo tre. Sono una banda intera.
Si riversano in casa e cominciano a smantellare tutto. Portano via tutto. E io glielo lascio fare. Anzi, dò loro una mano, cerco di essere gentile. Ho troppa paura.
Ho paura che mi facciano qualcosa. Ho paura di quello che mi ha detto il gatto.
Voglio solo che se ne vadano. Voglio solo che finisca.
Vedo il gatto affacciato alla finestra, con altri due gatti. Però adesso è giallo.
Lo chiamo e gli chiedo cosa devo fare.
"Semplicissimo,-dice lui-devi solo andare là e parlargli dell'Amore. Se ne andranno."
Dell'Amore? E che potrei mai dirgli?
Ma il gatto non vuole aggiungere altro.
"Basta che tu parli loro dell'Amore. E' semplice."
Penso a Gipi, quando ne LMVDM fa un discorso simile. Ma non c'era nessun gatto. C'era un orso che diceva sempre "cazzo". E non gli stavano rubando pure le sedie da sotto il culo. Che dovrei fare, io?
Cerco di attirare l'attenzione, mentre sto ancora pensando a cosa dire, ma non ci riesco molto bene, e solo tre uomini mi ascoltano, mentre io balbetto qualcosa di incongruente sulle ambizioni personali, sulla famiglia e qualche altra banalità del genere.
Poi mi accorgo che un tizio alto, magro, con la bandana, sta spargendo una specie di colla liquida sul tavolo, con un piccolo pennello.
"Eh no,-dico-il tavolo no! L'ha fatto un amico dei miei genitori, almeno quello lo lasciate stare!"
E allora un alro tizio, una gran faccia da schiaffi, che ha tutta l'aria di essere il capo della situazione, mi guarda, con aria quasi di sfida, e ordina: "Portate via il tavolo."
E allora io mi incazzo.
La banda, per qualche inspiegabile motivo, ha riempito casa mia di mac, ciascuno si è portato il suo, e non posso voltarmi senza vederne almeno uno.
Io non sopporto i mac. Mi dispiace Matteo, mi dispiace Giulia, mi dispiace sostenitori della Apple, ma io e il mac non siamo mai andati d'accordo. Forse perché mi riconosco più in Windows e tutti i suoi accartocciamenti, incastri e inghippi. Evidentemente, tra me e il mac non era destino.
Prendo un mac e lo sbatto per terra. Che sensazione sublime.
Volete portarmi via il tavolo? Benissimo!
Sbam! Altri due mac che volano giù, in un sol colpo.
Chi se ne frega delle conseguenze. Mi sono stancata.
E così, uno dopo l'altro, tutti i mac se ne vanno a terra, e non completamente soddisfatta comincio anche a calpestarli, per essere sicura che siano proprio rotti bene.
E ora fatemi a pezzi. Coraggio.
Incredibile: in modo quasi ordinato gli invasori se ne vanno, e per di più in silenzio. Ho riconquistato la casa. Alla faccia di quello stupido gatto.
La porta si chiude, e rimaniamo solo io e lei.
Non so chi sia, ma so di conoscerla bene.
E' bellissima. Perfetta. Non può essere vera. Non può essere mia.
Faccio qualche passo verso di lei. Mi bacia. Facciamo l'amore.
Dovrei chiamare il Polly, avevo detto che lo chiamavo, giusto?
Ma chi se ne importa adesso. Va tutto bene. Non ho bisogno d'altro.
E poi mi sveglio. L'immagine sbiadisce, il senso di calore svanisce nel nulla.
E non ho il coraggio di alzarmi da questo letto.

venerdì 22 gennaio 2010

Raccontare una storia

Che sta succedendo adesso veramente non lo so più.
Ho smesso di raccontare. E ne avrei di cose da dire, ancora. Ma mi manca qualcosa. E non è la voglia di raccontare.
Sono giorni di alti e bassi. Questo è sicuro. Le ultime settimane sono state così: si passava da degli alti molto alti a dei bassi che potevano essere più o meno bassi. Poi gli alti hanno cominciato a farsi medi, e i bassi son rimasti come prima. Qualcosa non va. Mi dico che è la sindrome premestruale e vado avanti. Viene lo stesso la sindrome premestruale prendendo la pillola?
Non so dire cosa mi stia capitando, e la cosa mi mette a disagio, tremendamente a disagio. Non so come raccontare la mia storia adesso, non mi sento tranquilla nel farlo, e la mia valvola di sfogo, la scrittura, è chiusa, e mi sento compressa e nervosa. Forse sarebbe l'occasione per parlarne. Non scriverne stando al sicuro dietro uno schermo.
Che ci vuole, in fondo?
Ho imparato a parlare prestissimo.
Prima di tutto, dicevo "a". Me ne stavo distesa nel mio lettino da cucciola di un mese, e dicevo "a". Mi piaceva ascoltarmi mentre lo dicevo. "A".
Poi, è diventato "na". Secondo mia mamma volevo dire "Martina", ma era un po' troppo complicato come secondo tentativo. "Na" era più alla mia portata.
"Na! Nnna! Na! Na!".
Mi piaceva proprio.
A due anni, al nido, anche se non riuscivo a pronunciare il suono "tr"-che sostituivo con una specie di sbuffo che somigliava ad un nitrito di cavallo, e avrei continuato così fino ai sei anni-raccontavo le storie alle margherite. Mi piaceva essere ascoltata. Mi piaceva ascoltarmi.
Sono presto diventata una logorroica. Forse perché sono timida, in realtà. Molto timida. L'ho voluto negare per anni, ma a che serve? Io sono timida. E sì, gli estranei possono farmi paura. Ma questa è un'altra storia.
Ho cominciato molto presto a rendermi conto che le mie storie potevano essere scritte. Così avrebbero raggiunto più persone.
Mi piaceva inventare storie, e anche ascoltarle. Quando andavo alle elementari, mio nonno mi veniva a prendere a scuola, e ogni giorno mi portava un panino al prosciutto e una storia. Tranne il martedì, perché andavo a lezione di pianoforte, e allora mi portava le pizzette. I miei compagni mi invidiavano per questo.
Mi ricordo che attaccava dei post-it in macchina con scritte le parti che non si ricordava bene, e anche qualcuna delle sue battute e osservazioni. In questo non è mai cambiato.
Ho scritto le mie storie per anni. O meglio, ho iniziato a scriverle. C'erano i pirati, e i draghi, e strani eroi con nomi improbabili, lupi mannari e bambine schifosamente intelligenti. Non ho mai finito nessuno dei miei racconti.
Poi, quando avevo dodici anni, le parole si sono sollevate dalla carta, si sono staccate e sono diventate tridimensionali. Il mio braccio destro è diventato una piccola videocamera, e la mia voce una voce narrante. E anche quello che scrivevo si adattava alla mia nuova vocazione. Senza successo.
Girai quattro ore di materiale sui forum studenteschi, ma chi si è mai seduto a montarle?
E dopo due o più video di concerti, due corti e un videoclip dalla dubbia moralità, decisi di appendere la mia Bimba al chiodo e lasciar perdere tutto. Non ne ho nemmeno più parlato, e se qualche volta l'ho fatto non ho potuto trattenere qualche lacrima.
Smisi anche di scrivere. E le parole cominciarono ad annodarsi nella mia bocca. E piano piano dimenticai da dove ero partita. Che stupida! E' talmente ovvio. Dalla "A".

lunedì 18 gennaio 2010

Oggi si parla per bene

Il Linguaggio.
La Frase.
La Parola.
La Comunicazione.
Ci ho investito tutto. Risultato? So scrivere e non so parlare.
I miei pensieri si distendono per scritto e non a voce.
Guardiamo questo spazio: è pieno di parole. Parole disposte in frasi di senso compiuto. Inserite in discorsi di senso compiuto. Che giungono a delle conclusioni. Più o meno.
Potrei anche sembrare una personcina intelligente, leggendo qui. O almeno una che scrive bene. Questo sì.
E non so parlare!
Vocalmente, le mie comunicazioni sono interrotte. C'è un'interferenza.
Suona più o meno così: boh.
Che io sia confusa è abbastanza lampante, ma vorrei essere in grado di comunicare anche senza una tastiera, uno schermo o anche più semplicemente un foglio di carta tra me e il mio interlocutore.
"Cioè, nel senso" non è una frase. "Boh" non è una parola. "Cazzo" non è un intercalare. Semmai una richiesta. Ma questa è una di quelle storie che non si raccontano qui, se non dopo le 24. Cosa che comunque, non è mai avvenuta.
Oggi si parla per bene. Non mi interessa se ci impegherò un minuto o venti per terminare una singola frase. Si parla per bene. Con le parole giuste. Con parole mie.
Basta continuare a respirare.
Chi si ricorda di quando me lo scrivevo sul banco prima dei compiti in classe?

Nota conclusiva.
Utile la chat di facebook per comunicare con chi si dimentica il cellulare in luoghi remoti tipo Bologna. No, davvero. Utile. Soprattutto se ti rispondono. Non sono affatto sarcastica. Veramente.

sabato 9 gennaio 2010

Lettera a M.

Ho iniziato questa lettera già due volte, sul mio blog. Due tentativi che non hanno mai visto la luce. Forse perché non sapevo ancora come parlarti.
Sei incostante. Una sinusoide, mi dici. Forse fa parte della tua attrattiva. O forse, molto più probabilmente, è ciò che mi fa paura.
Mi chiedi se penso di lasciarmi andare con te. Vorrei, ma come si fa?
Una cosa che ho sempre odiato e temuto è la sensazione di trovarmi sull’orlo di un abisso. Ho anche scritto di questa cosa.
Letterariamente, la mia scelta è stata quella di lasciarmi cadere. O meglio, di cadere. Forse spinta.
E’ quello che vorrei fare anche con te-cadere, intendo.
Stare in bilico sul bordo fa paura, crea insicurezze, dubbi.
Ti sei mai tuffato da una scogliera? Gli attimi prima di buttarsi sono terribili.
Ho espresso più volte il desiderio di volare via. Di lasciarmi precipitare, di sentire il vuoto che mi avvolge, sopra di me, sotto di me, intorno a me; che mi sostiene.
Abbandonarmi completamente.
Senza paura.
Un giorno spero di farlo. Senza paracadute.
“Stai tranquilla che ti tengo”. Così hai detto. Sembrano le parole di chi insegna a un bambino ad andare in bicicletta.
Perché pensi non ci sappia andare?
La paura è grande, ma vorrei vedere al di là. Mi servono solo le lenti giuste. E le ali per poter volare.
Tu sei una sinusoide. Mi chiedo fino a che punto farò parte della tua curvatura. O forse la trasformerò in spirale e mi ci farò avvolgere dentro.
Chi lo sa. E’ presto.
Hai detto che mi avresti tenuta. Tienimi. O lasciati precipitare con me. Sarà così male?

Raccontino Noir

Premessa: questo racconto ha più di un mese di età ormai. Non pensavo di pubblicarlo. Ma adesso, penso di poterlo fare. Non fa più paura. Non a me.

Piove.
Il cielo è plumbeo sopra la città, non lascia spazio a spiragli di sole. Che sta tramontando, comunque. Forse è già sceso sotto la linea dell’orizzonte. Non lo so, non saprei dirlo. Non si vede.
Piove.
Pioggia “inzuppavillani”. Le goccioline cadono su ogni superficie, picchiettando, come il rumore, di un pennello sulla tela, nelle mani di qualche impressionista.
Pic, pic, pic, pic, pic…
Aspetto, le mani in tasca.
Stasera aspetto te, baby.
Sento l’umidità penetrare nel mio cappotto, nei vestiti, nei capelli, sotto la pelle perfino. Ho sempre odiato gli ombrelli. Preferisco l’acqua.
Eccola, finalmente.
La vedo uscire dal portone.
Sembra felice, sorride.
E’ ancora sulla soglia, c’è qualcuno dentro.
“Allora ci vediamo domani-dice.
E sorride. Poverina.
Il portone si chiude.
Aspetto ancora un attimo nella semioscurità.
Toc, toc, toc, toc, toc…
I tacchi delle scarpe battono sull’asfalto bagnato. Che pena.
Devo sbrigarmi, prima di perderla.
Ho studiato il percorso per giorni, non posso sbagliare. Non mi aspetto imprevisti o cambi di traiettoria. L’ho osservata fare quella strada centinaia di volte.
Non posso sbagliare.
Toc, toc, toc, toc, toc…
Cammina, cammina, baby.
Ti sto dietro.
Ancora non so come sono arrivata qui, oggi, a questo punto. Un’idea talmente assurda da sembrare inapplicabile. Eppure, eccomi qui, sotto la pioggia inzuppavillani, con una lama nella tasca.
Non sono cose che accadono per caso. Non sono mai cose che accadono per caso. Se ne renderà conto.
Continua a piovere, più forte ora. Le gocce da spilli si sono fatte grosse, pesanti. Anche il rumore è cambiato, è più sordo, mi verrebbe da dire gutturale quasi.
Poc, poc, poc, poc, poc…
Ecco, ci siamo.
Ha imboccato una piccola viuzza riparata, immersa nella semioscurità creata dagli edifici e dal poco che riesce a filtrare attraverso lo spesso strato di nubi color canna di fucile.
Un tuono.
Strano. Non è il tipo di pioggia da tuoni e fulmini. Il suono sembra provenire da molto lontano, avvolto in un rotolo di cotone.
Che tuoni pure. Non sono nemmeno sicura di essermene accorta, mentre la afferro d’un tratto per il bavero della giacca, bagnata. Non ha avuto il tempo di accorgersi di me, che passo dopo passo mi sono avvicinata, sempre di più, sempre di più, e ora la tengo saldamente per la giacca con la mano destra, nel buio, lontano da occhi indiscreti.
E’ un attimo.
La strattono forte verso di me, all’indietro, con un movimento preciso, secco, che non lascia spazio a nessuna reazione.
Un attimo.
L’ho gettata a terra con quel solo ed unico movimento, ed ora è lì, di fronte a me, in ginocchio, occhi negli occhi, mentre ancora con la destra non mollo la presa.
Finalmente posso guardarla in faccia.
Finalmente posso vedere chiaramente cos’è che non mi ha fatto dormire, che non mi ha fatto mangiare, che non mi ha fatto nemmeno respirare per così lungo tempo. Tutto qui?
E’ una ragazza giovane, non molto alta, non molto bella. Anzi, decisamente anonima. Mi verrebbe da dire brutta, quasi. Ma non posso essere oggettiva, lo so.
Anonima. Una qualunque, una di quelle che si vedono tutti i giorni per la strada, così insignificanti da non rimaner minimamente impresse se non per caso.
Una ragazza normale.
“Normale”, gridano i suoi capelli castani, non molto folti.
“Normale”, gridano i suoi vestiti, le sue scarpe, la sua borsa, né di tendenza né alternativi.
“Normale”, gridano i suoi occhi, spalancati, ammutoliti, tremanti.
Gli occhi di chi sta per morire-penso.
Perché è questo che sta accadendo.
Lei sta per morire. Finalmente.
Un avvenimento che non migliorerà niente, non risolverà niente, non cambierà niente in meglio per me, anzi. Sarò la prima persona che andranno a cercare. Lo so, l’ho già calcolato.
Non sarà tutta discesa da qui in avanti. Al contrario.
Non ho deliberatamente mai voluto sapere niente di lei.
Non mi importa chi sia, cosa, faccia, cosa le interessi. Non deve esistere per me. Eppure esiste, e ho dovuto saperlo, ho dovuto pensarci. Sarò costretta a farlo per il resto della mia vita, dopo che lei non ci sarà più. Ma è questo il punto: non ci sarà più.
Qui, in ginocchio nella pioggia, davanti a me, c’è una piccola figura, zuppa e tremante, costretta a puntare il suo sguardo incredulo verso l’alto, dove stanno, immobili, i miei occhi.
Guarda i miei occhi, guardali.
Puttana.
Un ultimo istante per ripensarci.
Non accade niente.
La sinistra scivola nella tasca, tocca il metallo freddo che contiene.
Potrei ancora tornare indietro.
Non accade niente.
La lama affonda nel suo petto una prima volta, mentre gli occhi si spalancano ancora di più, e percepisco qualcosa che si contrae, ma non in me.
Mentre una pozza di sangue comincia a formarsi e a distruggersi , scorrendo via tra i sampietrini, la lama cade e ricade più volte, nello stesso punto, mentre mi assicuro che il suo sguardo sia puntato su di me, su colei per la quale aveva provato pena, che ora è qui che la sta uccidendo.
Colpisco per la quinta volta, l’ultima.
Non so se sia ancora viva.
Gli occhi sono spalancati, fissi, la bocca aperta.
“Per chi provi pena adesso, puttana?”
Non so se ho sussurrato o gridato queste parole, mentre mi chino su di lei, senza lasciarla ancora cadere. Deve guardarmi bene in faccia, anche se non è più qui. Io sono mesi che non ci sono più.
Guardami, guardami ancora…
Aspiro e le sputo negli occhi.
Ora non vedi più. Non vedrai mai più. Non sei più niente.
Mollo la presa.
Cade faccia in giù nel suo sangue, nell’acqua mista allo smog, nello sporco. Nel buio.
Ormai il sole è calato.
Un altro tuono, più distante.
La lama ritorna al sicuro, nella mia tasca.
Vi faccio scorrere le dita sopra, energicamente.
Sento il mio sangue pulsare fuori. Sono viva. Ma non qui.
Non in questo mondo.
E’ finita, è tutto finito ora.
Tutto.
Ora posso riposare.
Mi alzo dalla posizione in cui mi eri accucciata, vicino al corpo non più funzionante.
Ma ne vado, le mani in tasca, lo sguardo basso, tranquillo.
Piove.
Le grosse gocce picchiano su ogni superficie.
Poc, poc, poc, poc, poc…