venerdì 22 gennaio 2010

Raccontare una storia

Che sta succedendo adesso veramente non lo so più.
Ho smesso di raccontare. E ne avrei di cose da dire, ancora. Ma mi manca qualcosa. E non è la voglia di raccontare.
Sono giorni di alti e bassi. Questo è sicuro. Le ultime settimane sono state così: si passava da degli alti molto alti a dei bassi che potevano essere più o meno bassi. Poi gli alti hanno cominciato a farsi medi, e i bassi son rimasti come prima. Qualcosa non va. Mi dico che è la sindrome premestruale e vado avanti. Viene lo stesso la sindrome premestruale prendendo la pillola?
Non so dire cosa mi stia capitando, e la cosa mi mette a disagio, tremendamente a disagio. Non so come raccontare la mia storia adesso, non mi sento tranquilla nel farlo, e la mia valvola di sfogo, la scrittura, è chiusa, e mi sento compressa e nervosa. Forse sarebbe l'occasione per parlarne. Non scriverne stando al sicuro dietro uno schermo.
Che ci vuole, in fondo?
Ho imparato a parlare prestissimo.
Prima di tutto, dicevo "a". Me ne stavo distesa nel mio lettino da cucciola di un mese, e dicevo "a". Mi piaceva ascoltarmi mentre lo dicevo. "A".
Poi, è diventato "na". Secondo mia mamma volevo dire "Martina", ma era un po' troppo complicato come secondo tentativo. "Na" era più alla mia portata.
"Na! Nnna! Na! Na!".
Mi piaceva proprio.
A due anni, al nido, anche se non riuscivo a pronunciare il suono "tr"-che sostituivo con una specie di sbuffo che somigliava ad un nitrito di cavallo, e avrei continuato così fino ai sei anni-raccontavo le storie alle margherite. Mi piaceva essere ascoltata. Mi piaceva ascoltarmi.
Sono presto diventata una logorroica. Forse perché sono timida, in realtà. Molto timida. L'ho voluto negare per anni, ma a che serve? Io sono timida. E sì, gli estranei possono farmi paura. Ma questa è un'altra storia.
Ho cominciato molto presto a rendermi conto che le mie storie potevano essere scritte. Così avrebbero raggiunto più persone.
Mi piaceva inventare storie, e anche ascoltarle. Quando andavo alle elementari, mio nonno mi veniva a prendere a scuola, e ogni giorno mi portava un panino al prosciutto e una storia. Tranne il martedì, perché andavo a lezione di pianoforte, e allora mi portava le pizzette. I miei compagni mi invidiavano per questo.
Mi ricordo che attaccava dei post-it in macchina con scritte le parti che non si ricordava bene, e anche qualcuna delle sue battute e osservazioni. In questo non è mai cambiato.
Ho scritto le mie storie per anni. O meglio, ho iniziato a scriverle. C'erano i pirati, e i draghi, e strani eroi con nomi improbabili, lupi mannari e bambine schifosamente intelligenti. Non ho mai finito nessuno dei miei racconti.
Poi, quando avevo dodici anni, le parole si sono sollevate dalla carta, si sono staccate e sono diventate tridimensionali. Il mio braccio destro è diventato una piccola videocamera, e la mia voce una voce narrante. E anche quello che scrivevo si adattava alla mia nuova vocazione. Senza successo.
Girai quattro ore di materiale sui forum studenteschi, ma chi si è mai seduto a montarle?
E dopo due o più video di concerti, due corti e un videoclip dalla dubbia moralità, decisi di appendere la mia Bimba al chiodo e lasciar perdere tutto. Non ne ho nemmeno più parlato, e se qualche volta l'ho fatto non ho potuto trattenere qualche lacrima.
Smisi anche di scrivere. E le parole cominciarono ad annodarsi nella mia bocca. E piano piano dimenticai da dove ero partita. Che stupida! E' talmente ovvio. Dalla "A".

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