domenica 21 febbraio 2010

Upupa

Molti di noi da bambini probabilmente hanno provato la sensazione di tenere un uccellino in mano. Qualcosa di caldo, piccolo, tenero, immensamente fragile, che si dibatte, mentre con le dita si possono sentire le minuscole ossa e il cuore che batte veloce. Si ha paura di romperlo, stringendo appena un po' troppo forte.
La sensazione di avere una vita nelle proprie mani. La sensazione di avere La Vita nelle proprie mani. Qualcosa che mi sembra molto simile a ciò che deve essere un miracolo.
Da piccole io e le mie amiche avevamo dei canarini. Ogni tanto ci divertivamo a farli svolazzare liberi per la stanza, senza renderci conto di quanto dovesse essere spaventosa quell'esperienza per loro. Andavano a sbattere contro le pareti, il lampadario, e spesso rimanevano incastrati tra muro e letto, o nel termosifone. Quando riuscivamo a riacchiapparli e rimetterli in gabbia il loro cuoricino batteva all'impazzata, le penne erano arruffate e il respiro affannoso. I bambini non si rendono conto di certe cose. Pensano sia tutto un gioco.
Una volta uno dei miei canarini scappò, e non so come lo ritrovammo vicino al fiumiciattolo che passava sotto casa.
Mia madre mi raccontò che anche lei aveva un canarino, che volò fuori dalla finestra e non tornò più. Le si stringe ancora il cuore a pensare alla fine che avrà fatto.
Le rondini facevano lezione di volo fuori dalle nostre finestre all'Isola D'Elba. Mi ricordo ancora perfettamente i loro richiami, e il modo in cui si dondolavano avanti e indietro, quando si appollaiavano tutte in ordine sul filo del telefono.
Non ne ho mai vista nessuna cadere. Eppure deve essere successo. Per questo gli uccelli fanno tanti piccoli: per la certezza che qualcuno sopravviva. Selezione naturale.
Invece un uccellino caduto lo abbiamo incontrato anche noi. Uno storno, che mia madre aveva chiamato Stella jr.
Quando la abbiamo trovata era un esserino piuttosto disgustoso, tutta spennacchiata, con la pancia gonfia e solo due ciuffi di piume ai lati della testa. Sembrava Einstein.
Le davamo da mangiare pan grattato e macinato, e l'acqua con un contagocce. Viveva in un cestino, che riempiva puntualmente di reperti organici piuttosto maleodoranti, e le piaceva stare appollaiata sul bordo, spalancando il becco e strillando per richiamare la mia attenzione.
In una settimana si irrobustì, mise tutte le penne e cominciò a tentare qualche voletto fuori dalla cesta. Così la portammo alla LIPU. Aveva ancora i due ciuffetti da Einstein.
Uno dei miei ricordi più belli però è questo.
Quando avevo undici anni passai le vacanze di Natale coi miei genitori in Senegal, a Dakar. Un giorno, mentre giravamo per la città, mio padre mi fece comprare un uccellino in un mercato. Lo presi in mano, e sentii il suo piccolissimo cuore che pompava veloce il sangue in tutto il suo minuscolo corpo, mentre cercava di agitare le zampette e le alucce nel tentativo di volare via.
Ricordo di averlo tenuto stretto per un attimo, mentre il mio cuore batteva forse più forte del suo, di avergli dato un piccolo bacio sulla testolina arruffata e di aver aperto le mani. E' volato via, in un istante, battendo forte le ali, come qualcosa di veramente libero.
L'altra notte ho sognato un'upupa, che se ne stava dietro una porta a vetri aperta, appollaiata, tranquilla, e mi guardava. Mio padre voleva spararle con un fucile, senza un vero motivo. Io e mia madre volevamo impedirglielo, ma lui continuava a puntarle quel fucile contro, e non si è fermato nemmeno quando ci siamo messe tra lui e l'upupa. Alla fine, ha sparato, e l'ha colpita alla testa. Un foro piccolissimo, per una pallottola di fucile. E io mi sono sentita dilaniare dentro per non essere riuscita a salvarla.

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